Mio padre non è mai stato presente nella mia vita. Secondo mia madre, se n’era andato prima ancora che io nascessi, e non l’ho mai sentita parlare di lui in modo positivo. Crescendo, ho capito in fretta che per lei ero più un peso che una fonte di gioia.
Ha sempre fatto fatica a trovare un uomo disposto ad accettare il “pacchetto completo” che comportava uscire con una madre single. Ho sentito quella frase così tante volte che alla fine ho iniziato a crederci anche io: ero un bagaglio ingombrante, un ostacolo alla sua felicità. Lavorava molte ore e passava da un fidanzato all’altro, uomini che non restavano mai abbastanza a lungo da ricordarsi il mio nome. Io cercavo solo di non dare fastidio: testa bassa, compiti fatti, invisibilità.
Il giorno in cui partii per l’università fu una liberazione. Niente più tensioni, niente più camminare sulle uova. Mi sembrava di respirare per la prima volta.
Durante il secondo anno, ricevetti una telefonata da lei. Era entusiasta: aveva incontrato l’uomo giusto. Diceva che era gentile, stabile, diverso da tutti gli altri. Ero sinceramente felice per lei. Forse era davvero la svolta che aspettavamo entrambe.
La prima volta che incontrai il mio patrigno, Marc, fu cortese, persino affabile. Faceva battute, mi chiedeva dei corsi all’università, sembrava interessato a quello che dicevo. Era… insolito. Non ero abituata a un’attenzione maschile che non fosse distante o imbarazzata. Pensai che stesse solo cercando di essere gentile.
Ma la gentilezza ben presto divenne ambigua. Toccava la mia spalla senza motivo, mi faceva complimenti inappropriati, e i suoi commenti cominciarono a sembrarmi troppo insinuanti. Mi dicevo che forse stavo esagerando, che era solo gentilezza. Finché una sera, in cucina, mentre mia madre era fuori, mi si avvicinò troppo. Mentre prendeva un bicchiere, sfiorandomi, mi sussurrò: “Sei una ragazza bellissima. Qualsiasi uomo sarebbe fortunato ad averti.”
Rimasi paralizzata. Mi sentii mancare il respiro. Mormorai un grazie imbarazzato e uscii dalla stanza il più in fretta possibile. Da quel momento in poi evitai ogni contatto con lui, stando sempre a distanza. Avevo deciso di parlarne con mia madre una volta tornata in università, ma alla fine non ebbi il coraggio. Era così felice. Non volevo essere io a distruggere tutto.
Qualche settimana dopo, però, mi chiamò furiosa. La sua voce era piena di rabbia. “Piccola sgualdrina”, urlò. “Come hai osato cercare di sedurre mio marito?”
Rimasi scioccata. Marc le aveva raccontato che ero io a metterlo a disagio. Che mi vestivo in modo provocante, che lo provocavo, che cercavo di sedurlo.
Niente di quello che dissi la fece cambiare idea. La decisione era già stata presa. Mi tagliò i fondi per l’università, mi disse di non contattarla mai più e dichiarò che per lei io non esistevo più. Chiusi la chiamata con il cuore in gola.
Non avevo nessuno. Niente famiglia, nessuna rete di salvataggio. Dormii su divani, lavorai giorno e notte, vissi di prestiti universitari e di lavoretti occasionali. Fu il periodo più duro della mia vita. Ma ce l’ho fatta. Mi sono laureata, ho costruito la mia indipendenza e ho lasciato il passato alle spalle.
Sono passati anni. Nessuna telefonata, nessuna scusa. Il silenzio. A un certo punto, ho smesso di sperare.
Poi, all’improvviso, un giorno si è presentata sul mio posto di lavoro.
Ero nel mezzo del turno in una piccola libreria quando l’ho vista. Era lì, davanti a me. Sembrava più piccola, più fragile. Il cuore mi si è stretto, ma sono rimasta dietro al bancone, decisa a non darle la soddisfazione di una reazione.
“Devo parlarti”, disse, con voce incerta.
“Perché?”, risposi, fredda.
Abbassò lo sguardo, come se temesse di essere ascoltata. “Marc… non era chi credevo. Ha fatto cose. A me. Ad altre. Non l’ho capito prima, ma—”
“Ma hai creduto a lui, non a me”, l’interruppi. “Mi hai buttata via. E io ho perso tutto per colpa tua.”
Le lacrime le salirono agli occhi. “Lo so. Mi dispiace tanto. Ero cieca. Mi ha manipolata. Ero debole. Io—”
“Non ho bisogno delle tue scuse”, la gelai. “Perché sei qui adesso?”
Esitò. “Non ho più nessuno. Ho perso tutto. Voglio solo riavere mia figlia.”
La fissai. Una parte di me aveva sognato quel momento: che tornasse, che ammettesse di aver sbagliato. Ma adesso che era lì, davanti a me, non provavo nulla. Nessun sollievo. Nessun calore. Solo un vuoto.
“Hai fatto la tua scelta”, dissi infine. “E io ho fatto la mia. Ho costruito una vita senza di te. E non ho più bisogno di te.”
Il suo volto si deformò nel pianto. Ma io non cedevo. Avevo impiegato troppi anni a ricostruirmi per permetterle di distruggermi di nuovo.
Se ne andò. E io la lasciai andare.
Un tempo avrei dato tutto per sentirla dire “mi dispiace”. Ma certe ferite sono troppo profonde perché bastino le parole a guarirle.
E io, finalmente, ero libera.
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