Controcopertina

Le parole di Nicola Turetta rivolte al figlio Filippo sono cariche di umanità. È nostro dovere non prestarvi ascolto



Il dibattito sulla figura paterna si intensifica con il caso di Filippo Turetta, coinvolto nel femminicidio di Giulia Cecchettin, sollevando interrogativi su privacy e linguaggio.



Recentemente, i titoli dei principali giornali si sono concentrati in modo particolare sulla figura del padre di Filippo Turetta. Quest’ultimo, accusato del femminicidio di Giulia Cecchettin, ha visto il nome del genitore, Nicola, comparire solo nel corpo degli articoli. Rivolgiamo l’attenzione sulla differenziazione dei nomi, dove si chiede giustamente di utilizzare i cognomi delle donne, mentre il nome degli uomini rischia di cadere nell’anonimato. La conversazione tra padre e figlio, in cui Nicola ha tentato di confortare il suo bambino, ha assunto un’importanza pubblica, sebbene si trattasse originariamente di un momento personale e privato.

L’immagine archetipica del padre viene esaminata: il genitore come educatore, una figura morale che guida e insieme punisce, norma e perdona. Tuttavia, le narrazioni tendono a ritrarre il padre come un’autorità assoluta, schiavo di una visione patriarcale. A differenza della madre, che offre consolazione e sostegno, il padre si associa più spesso all’approvazione e alla negazione.

Due elementi chiave emergono da questa vicenda, che può sembrare priva di un necessario decoro giornalistico.

Il primo aspetto è la tendenza inquietante di esporre la vita privata dei cittadini, trasformata in merce per il pubblico consumo. La nostra nudità emotiva, quasi considerata come segno di autenticità, diventa un ulteriore attacco alla nostra intimità. Non dimentichiamo che, secondo la tradizione cristiano-cattolica, la nostra umanità e la nostra vita iniziano solo con la vestizione, un simbolo della vulnerabilità e della moralità.

Essere costretti a esporre se stessi e gli altri diventa una forma di violenza. In un’epoca dominata dai social media, dove il privacy è un concetto labile, la nostra biografia finisce per sostituire la biologia, rivelando che viviamo in un capitalismo dove le narrazioni personali hanno un peso maggiore del semplice, tangibile essere.

Il secondo tema fondamentale concerne il linguaggio. Ci preoccupiamo della fragilità delle parole a livello individuale – una preoccupazione giustificata e rispettabile – ma ci dimentichiamo delle loro implicazioni più ampie, dimenticando che non sempre le parole hanno la capacità di guarire o riparare. Quando Nicola Turetta parla con suo figlio nel tentativo di consolarlo e prevenirne la tragica scelta, stiamo assistendo a un atto puramente umano, non di meno, giustificabile o inaccettabile.

Una volta che queste parole private entrano nel dominio pubblico, la loro valenza cambia, ma non è né necessario né utile giudicarle in questo contesto. La morale dei dialoghi intimi non è un argomento da trattare alla leggera, né tantomeno da soppesare secondo un’ottica binaria di giusto e sbagliato.

A partire da qui, sebbene io stia scrivendo da una posizione distante dal dramma di Giulia Cecchettin e dalla sofferenza dei suoi cari, posso temporaneamente mettermi nei panni di Nicola Turetta. Ho sperimentato situazioni simili, in cui le parole pesavano come responsabilità nel tentativo di evitare azioni irreparabili.

In definitiva, quelle interazioni non sono categorizzabili come giuste o sbagliate, ma piuttosto riflettono la nostra umanità, che si basa sul dialogo e sulla comprensione reciproca.



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