Quarantatré anni, una vita segnata da comportamenti immaturi e da un serio problema di dipendenza dall’alcol. Questo è il ritratto di Stefano Brunetti, un romano di Anzio che nel 2008 vive una condizione di fragilità interiore e vulnerabilità. Stefano, un uomo con un grande cuore, è capace di affezionarsi intensamente alle persone, ma si ritrova spesso al centro di difficoltà, compresa una situazione pericolosa che si verifica un lunedì di settembre. Complice un amico, decide di intrufolarsi nel magazzino di un negozio di biancheria per la casa a Nettuno per un furto. La situazione precipita quando vengono colti in flagrante dal titolare. Ne scaturisce una zuffa e, in seguito, l’intervento delle forze dell’ordine. Stefano viene portato al commissariato locale con gravi ferite: la diagnosi include costole rotte e una milza danneggiata.
La Tragedia al Commissariato
È proprio all’interno della camera di sicurezza del commissariato di Anzio, situato a un’ora di distanza da Roma, che si svolge un episodio drammatico. Brunetti viene trattenuto in attesa dell’accompagnamento in carcere, un evento che, però, non si concretizzerà mai: il 43enne viene indirizzato d’urgenza all’ospedale di Velletri. “Chi ti ha ridotto in questo stato?” chiede Claudio Cappello, medico di guardia al pronto soccorso. “Mi hanno picchiato i poliziotti del commissariato di Anzio,” risponde Stefano, con voce illesa ma carica di dolore. Tragicamente, poco dopo, Stefano muore a causa di un’emorragia interna. La famiglia, devastata, si trova a dover fare i conti con la restituzione del corpo del caro Stefano, il quale non solo ha perso la vita, ma ha lasciato una scia di dolore e disperazione. Subito scatta una denuncia, che fa aprire un’inchiesta da parte del pubblico ministero Luigi Paoletti.
Le Testimonianze e l’Inchiesta
L’inchiesta rivela due lati della medaglia, contrapposti e controversi. Da un lato, ci sono le testimonianze dei quattro agenti coinvolti—Salvatore Lupoli, Massimo Cocuzza, Daniele Bruno e Alessio Sparacino—che sostengono che Brunetti avrebbe subito le ferite a causa di atti di autolesionismo. Dall’altro lato, il referto autoptico descrive dettagli inquietanti: una milza perforata, costole rotte e segni di emorragia, che fanno ipotizzare un pestaggio. Gli elementi del caso creano concrete domande sull’operato delle forze dell’ordine e sull’uso di abuso di potere. Servono anni prima che il caso arrivi a processo, a settembre 2011, quando i poliziotti si trovano sul banco degli imputati con accuse di omicidio preterintenzionale e falso.
Il Processo e le Conclusioni
Il contesto giuridico fa emergere inquietanti similitudini con altri casi noti, come quello di Stefano Cucchi e di Federico Aldrovandi. Malgrado ciò, la vicenda di Brunetti rimane un caso esclusivamente locale. Nonostante il processo si svolga senza i riflettori dei media, il risultato finale è un’assoluzione per “non aver commesso il fatto” in primo grado e una successiva condanna a dieci anni in appello. La Corte di Cassazione, in ultimo, confermerà l’assoluzione: tutti gli agenti vengono scagionati. Secondo la sentenza, Stefano, sedato con una doppia dose di Diazepam, si sarebbe lesionato in autonomia, infliggendosi la perforazione della milza e le fratture costali.
L’Attivismo della Famiglia Brunetti
La storia si conclude con la famiglia Brunetti che, oltre a dover fronteggiare il dolore per la perdita, è costretta a sostenere le spese processuali per il lungo iter legale. Tuttavia, nel nome di Stefano, i suoi familiari non si arrendono; si battono con determinazione per i diritti dei detenuti nel sistema penale italiano. Fondano un osservatorio dedicato a monitorare le condizioni di detenzione, cercando di prevenire nuovi tragici eventi e garantire un’adeguata protezione per coloro che si trovano in situazioni vulnerabili all’interno del sistema penitenziario. L’eredità di Stefano Brunetti vive attraverso le battaglie sociali intraprese dalla sua famiglia, che continua a lottare per giustizia e dignità.
Add comment