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Marco Lioni, la storia del conduttore: Chi è la moglie e chi sono i figli?



Se guardi bene, la vita di Marco Liorni è una questione di passi. Uno dopo l’altro, senza perdere il ritmo. E senza sosta. È così nella sua carriera, iniziata a 16 anni facendo radio e proseguita in Tv con passo svelto, felpato e un andamento costante che l’ha portato a essere uno dei volti più amati del piccolo schermo, oggi al timone di Reazione a catena.



Ma di passi Liorni farcisce anche le sue giornate. Passi veri, tanti da arrivare a percorrere fino a dodici chilometri. «È il mio modo per ossigenarmi anima e corpo, pulire la testa, ragionare. Cammino tantissimo, ovunque e appena possibile: porto mia figlia a scuola, a spasso il cane. Mi infilo le scarpe e parto spedito, lasciando che siano i pensieri a dettare il ritmo.

A parte il fatto che mi è venuta una tendinite, ora in via di guarigione – chissà, forse non ho più l’età (ride, ndr) – camminare è un’irrinunciabile fonte di benessere, una terapia che consiglio a tutti».

Ora non avrai tanto tempo per le tue maratone: fino al 30 ottobre sarai in onda con il quiz preserale di Raiuno. Una novità che, dopo sedici anni di messa in onda, sa di meritatissima promozione. «Si sono allungate le stagioni, si è dilatato anche il tempo di messa in onda del programma… Sono felice, è un gioco che stuzzica la creatività, mette alla prova intuito, prontezza e padronanza dell’italiano. Concorrenti e telespettatori sono stimolati a fare ginnastica mentale, a rinfrescare la mente, con leggerezza».

A te cosa rinfresca la mente? «La musica. Ascoltarla e suonare un pochino la chitarra. E gli scacchi. Sono momenti che mi riconciliano con me stesso». Sembri molto introspettivo, pacato, controllato. «Sono tranquillo, riservato, ma controllato non più. Anni fa, in un istante preciso, ho deciso di allentare il freno interiore e lasciarmi andare». Che momento era? «Una ventina di anni fa: da allora è cambiato il mio modo di affrontare le cose.

Ero frenato, non ero pienamente me stesso e ciò non mi faceva stare bene. Un giorno, guarda caso, camminavo per Roma e riflettevo. Ho avuto netta la consapevolezza di essere troppo timoroso, bloccato. Così ho preso coraggio, lasciando da parte la paura». Paura di cosa? «Di non vivere pienamente. Avevo voglia di scendere in campo e affrontare la mia partita quotidiana. Così ho fatto».

Fai un bilancio, com’è andata? «Non amo fare i bilanci, guardarmi indietro. Preferisco vivere giorno dopo giorno, con impegno ed entusiasmo. Ma una cosa la posso dire: da piccolo sognavo di fare esattamente ciò che sto facendo. E aver trasformato un hobby in professione è un privilegio. Da bambino ero affascinato dal mondo dello spettacolo, ero appassionato di riprese e realizzavo filmati. In prima battuta volevo fare il cameraman, poi ho iniziato a sentire attrazione per radio e Tv, tanto da spingermi a bigiare la scuola per andare a visitare gli studi di emittenti locali, e poi tornare a casa e simulare collegamenti radiofonici».

I tuoi genitori assecondavano oppure ostacolavano le tue passioni? «Mia madre mi ascoltava e già non era poco. Mio padre aveva vissuto una passione simile alla mia: adorava i fumetti, li disegnava, era un piccolissimo editore, quindi capiva il mio stato d’animo da sognatore. Ma prima di radio e Tv ho fatto di tutto». Che cosa, per esempio? «Il commesso, il bagnino, il traslocatore… Mi davo da fare per essere indipendente, seppur continuando a sognare la vita che poi, via via, ho costruito gradino dopo gradino. In radio ho iniziato facendo il fonico, poi sono passato alla parte musicale, quindi allo speakeraggio.

In Tv ho fatto montaggi, piccoli documentari prima di diventare inviato e conduttore». Sei amatissimo da più generazioni, metti d’accordo tutta la famiglia. Quale è il segreto di tanto successo? «In tutti gli ambiti della vita cerco di essere autentico, lasciando trasparire ciò che sento esattamente come lo sento. Mi lascio conoscere senza sovrastrutture».

Hai tre figli: Niccolò, di 27 anni, Emma, 17, Viola, 11. Che papà sei? «Orgoglioso. Più che altro ascolto, evito di essere troppo pedante, e tendo a far arrivare da loro le risposte alle domande che mi pongono.

È un modo per renderli più autonomi, adulti. Spero di infondere tanta energia quanta loro ne offrono a me, di essere una buona guida, spiegando che anche i momenti no servono a crescere. Sono bravi ragazzi, sensibili, rispettosi, interessati al prossimo e sono le mie finestre sul mondo. Cerco di trasmettere loro il concetto di collettività, di ragionare al plurale, di uscire dall’individualismo. Perché se non si marcia insieme, non si va da nessuna parte».



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