Diceva che la morte non esiste, che è solo trasformazione. Credeva nella reincarnazione e cantava che «la vita non finisce, finché non saremo liberi torneremo ancora, ancora e ancora». Per questo scrivere che Franco Battiate si è spento la mattina del 18 maggio nella sua casa di Milo, in Sicilia, sarebbe fargli un torto: diremo perciò che non è più qui, ma altrove, dopo 76 anni vissuti nel corpo di uno dei maggiori artisti della scena italiana, autore di brani che, una volta sentiti, non se ne vanno più dalle orecchie e dal cuore.
Un cantautore eclettico, intellettuale e geniale, che nella sua carriera ha spaziato da Cuccurucucù a La cura, dal pop alla poesia, ha sperimentato l’elettronica e il rock progressivo, le sonorità etniche e quelle liriche, accolto suggestioni intimiste, mistiche, filosofiche.
Con lui le etichette non hanno mai funzionato: l’unica veramente azzeccata, incontestabile, è quella di “maestro”, come lo chiamavano in tanti, quei tanti che ora lo ricordano commossi e addolorati, che ai social affidano un ultimo saluto, una citazione, la memoria di un momento condiviso.
Esponenti del mondo della cultura e della politica – il presidente Sergio Mattarella, il ministro Dario Franceschini, l’ex premier Giuseppe Conte – ma soprattutto colleghi: da Vasco Rossi a Dori Ghezzi, dai Maneskin a Marco Mengoni, da Eros Ramazzotti, che ne rammenta «ironia, saggezza, intelligenza infinita, genialità», a Nek che elogia il suo essere «un signore e non solo della musica, ma proprio nell’animo» e le sue tante virtù, tra le quali «spiccava certamente l’umiltà».
E ancora Morgan, amareggiato perché «Battiate era uno degli ultimi veri uomini di cultura, in questa Italia mediocre e spenta», fino a Emma, che con lui aveva duettato nel 2016, pochi anni prima che si ritirasse dalle scene, e ora gli scrive in codice: «Ciao Francuzzo mio. Oggi il mio cuore piange per te. Tu sai. E io so».
La storia di Franco Battiate – Francesco all’anagrafe e nei primi tempi della carriera, finché Giorgio Gaber non gli suggerì di cambiare nome per non essere confuso con Guccini – comincia in Sicilia, lì dove finisce. Nato nel 1945 a Ionia, paese in provincia di Catania oggi ribattezzato Riposto, era figlio di un camionista e di una casalinga, Grazia, alla quale rimase sempre legatissimo. Alla morte del padre si trasferì a Roma poi a Milano, dove, poco più che ventenne, iniziò a esibirsi al Club 64, sullo palco in cui si alternavano Enzo Jannacci, Bruno Lauzi e Renato Pozzetto.
Fu lì che lo notò Gaber, che divenne suo amico e mentore e gli aprì le porte della Tv, ospitandolo nel suo programma Diamoci del tu, e persino di Sanremo, chiedendo la sua collaborazione per il testo di E allora dai!, presentato all’edizione 1967.
Battiate si fece conoscere pian piano, prima con le canzoni di protesta, poi con quelle sperimentali degli Anni 70. Il successo vero arrivò nel 1981 con La voce del padrone, l’album di Bandiera bianca, Cuccurucucù e Centro di gravità permanente, con il quale per la prima volta strizzava l’occhio al pop.
In quegli anni scrisse per sé e per gli altri, per Milva e Giuni Russo (Un’estate al mare porta la sua firma), si diede alle letture sulla spiritualità e il misticismo, venne invitato da Papa Giovanni Paolo II a cantare in Vaticano, un onore mai visto prima per un esponente della musica leggera.
Negli Anni 90 iniziò a collaborare con il filosofo Manlio Sgalambro e i suoi testi divennero ancora più raffinati ed ermetici. Intanto era tornato nella sua Sicilia natale: a Milo, sulle pendici orientali dell’Etna, aveva acquistato e ristrutturato il castello della famiglia Moncada, più un piccolo borgo che una semplice residenza, con piscine, dépendance, una sala da ballo ricavata nelle vecchie cantine – a terra un parquet fatto con il legno delle botti di rovere – dove danzare alla maniera dei sufi, i mistici musulmani che tanto ammirava, e una chiesetta dove ogni mattina faceva dir messa per mamma Grazia, morta nel 1994.
In questa cornice idilliaca Battiate visse solo, senza mai mogli o fidanzate. «Mi innamorai una volta sola nella vita, a sedici anni», raccontò tempo fa al Corriere. «Lei mi faceva tremare le gambe. Fu bello perché finì lì. Un altro anno così mi avrebbe ucciso». A fargli compagnia c’erano i domestici, la cuoca – che per lui preparava piatti vegani con le verdure dell’orto – le letture impegnate e la musica classica, che ascoltava per ore all’alba, prima delle quotidiane meditazioni in veranda, con l’Etna a un tiro di schioppo e il mare all’orizzonte.
Così fino a tempi più recenti: altre canzoni, altri album, collaborazioni, premi, onorificenze, persino una medaglia d’oro ai benemeriti della cultura e dell’arte nel 2003 e l’Ordine al merito della Repubblica italiana l’anno dopo. Poi la malattia: un male mai ufficializzato, sempre ammantato di mistero e discrezione, di cui né lui in prima persona né la famiglia – il fratello Michele e la nipote – dissero mai una parola di troppo, ma che nel 2019 lo costrinse al ritiro definitivo dalle scene. Alzheimer secondo alcuni, ma è solo un’illazione che poco importa. Quel che veramente conta è tutto il resto che Franco ci ha lasciato: un’eredità di musica e poesia che nulla – men che meno la morte – potrà mai cancellare.
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