Controcopertina

Smart Working, il Coronavirus ha dato il via al più grande esperimento di telelavoro



La pandemia Covid-19 (Sars-Cov-2) ha trasformato radicalmente le nostre vite e il nostro modo di lavorare, aggiungendo all’attuale emergenza sanitaria lo spettro di una devastante crisi economica. Per milioni di italiani lavorare a distanza è diventata una reale necessità: per fortuna il Governo italiano e la maggioranza delle aziende hanno reagito tempestivamente alla situazione varando una serie di importanti misure di prevenzione e contenimento. Il timore di essere contagiati, purtroppo, resta altissimo e improvvisamente è diventato rischioso per chiunque (non solo per gli anziani) frequentare luoghi affollati, convegni, manifestazioni sportive, stringere la mano a un amico e persino abbracciare una persona cara.



C’è un mondo prima e dopo il Coronavirus: le metropoli sono diventate deserte, le strade si sono svuotate e così pure la maggior parte delle aziende. Siamo stati costretti a limitare le nostre interazioni sociali, mentre la chiusura delle scuole ha portato tutti noi (o quasi) a riorganizzare la vita famigliare per conciliarla con quella lavorativa. Il Bel Paese si è trovato proiettato a tutta velocità nel mondo del lavoro 2.0, catapultando milioni di lavoratori italiani (molti costretti, altri gentilmente invitati) a lavorare da casa, per sperimentare il famoso smart working. Il primo “vaccino” per le aziende è il lavoro agile Possiamo considerare lo “smart working” (o “Lavoro Agile” nella versione italiana) come un’evoluzione del vecchio telelavoro.

Si tratta di una modalità di lavoro introdotta in Italia dalla Legge n. 81 del 22 maggio 2017 per aumentare la competitività delle aziende. Con la pubblicazione deI Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) del 25 febbraio 2020 si è deciso che il lavoro agile fosse “applicabile” – in via provvisoria – per i datori di lavoro aventi sede legale o operativa nella maggior parte delle regioni italiane (Emilia- Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte, Veneto e Liguria) e per i lavoratori ivi residenti o domiciliati che svolgano un qualsiasi attività lavorativa fuori da tali territori. Dopo l’8 marzo 2020 il lavoro agile è stato via via esteso a tutta la penisola. In un Paese come il nostro in cui la carta prevale ancora sul digitale, l’emergenza Coronavirus ha portato prepotentemente lo smart working nella nostra vita con tutti i pro e i contro del caso.

Vale per tutti? Innanzitutto, si tratta di una modalità di lavoro che non è applicabile a tutte le categorie di lavoratori: per esempio, operai, meccanici, elettricisti, camerieri, cuochi non possono lavorare da remoto. I più “fortunati”, invece, si sono dovuti adattare velocemente alla situazione, trovandosi ad affrontare piccoli e grandi problemi: dalle difficoltà di connessione della propria rete casalinga a quelle con la VPN aziendale, dalla mancanza di strumenti di backup ai programmi da configurare per partecipare ai meeting in streaming e così via. L’effetto Coronavirus però potrebbe segnare un punto di svolta nel traballante mondo del lavoro italiano, soprattutto a livello organizzativo. La situazione italiana continua a rimanere molto complicata: il nostro Paese, infatti, sembra non essere riuscito a lasciarsi alle spalle la crisi economica mondiale del 2008. Coronavirus e smart working possono paradossalmente dare una bella spallata al sistema economico, come sostengono molti economisti che invitano le aziende a sfruttare questa inaspettata (e tragica) opportunità.

Libertà totale (o quasi) Con la digitalizzazione delle aziende e dell’individuo stesso, le attività lavorative che non richiedono una presenza fisica possono essere tranquillamente svolte da remoto. Un’opportunità che le aziende di ogni dimensione hanno cercato di cogliere più o meno tempestivamente. Lo smart working stesso va oltre il concetto di telelavoro e, per certi versi, ne rappresenta la sua naturale evoluzione. Il lavoro agile può offrire un’autonomia e una flessibilità che sono sconosciuti nel mondo del telelavoro, dove orari, luoghi e strumenti tecnologici sono stabiliti da accordi contrattuali prestabiliti. Lo smart working introduce una nuova filosofia nel nostro modo di lavorare, basata su obiettivi da raggiungere e scadenze da rispettare, mantenendo una flessibilità e un tetto massimo di ore.

Con questa modalità non c’è un badge da timbrare né una scrivania da occupare, se non quella presente nel salotto di casa. La legge stabilisce solo che l’accordo tra le parti venga formalizzato (e non resti verbale), lasciando ampia libertà di manovra sia al lavoratore, sia al datore di lavoro. Si può lavorare da e in qualunque posto (un bar, un parco, a bordo piscina o in una libreria) e con qualunque tipo di dispositivo (non è necessario un PC per lavorare da remoto come nel caso del telelavoro): l’unico requisito essenziale è avere una connessione Internet.

L’accordo può avere valore per un determinato periodo oppure essere a tempo indeterminato: è importante ricordare che lo smart working può essere revocato in qualsiasi momento da entrambe le parti, basta un semplice preavviso. L’azienda, poi, in determinate circostanze (per esempio, una produttività al di sotto delle attese da parte del lavoratore) può annullare questo accordo per “giusta causa”, prima della naturale scadenza e senza alcun preavviso. Per quanto riguarda il trattamento economico, lo smart worker ha diritto a percepire lo stesso stipendio dei colleghi che vanno in ufficio (parigrado o addetti alla medesima mansione), e la stessa cosa vale per i premi e gli incentivi previsti dal contratto. Da un punto di vista legale occorre ricordare che la casa si trasforma di fatto in un vero ufficio, con una serie di problematiche relative alla “questione sicurezza”.



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