Abbiamo imparato a conoscerlo: ama provocare, sorprendere, far parlare di sé. E in occasione del nuovo album 1990, appena uscito, non fa altro che ripetersi. Achille Lauro vestito da Barbie crocifisso su una croce di dolcetti. Questo sarebbe dovuto essere il manifesto per annunciare il suo nuovo album, un inno alla cultura pop anni Novanta. Dissacrante? Per la “pesante mano della censura” – così l’ha definita su Twitter il trapper romano – è troppo.
Niente affissioni. Ma l’artista non si è assolutamente perso d’animo e appena ricevuta la notizia ha deciso di aggirare la revisione, pubblicandolo sul proprio profilo Twitter. «La regalo a tutti voi e come sempre “Me ne frego”» ha concluso, ripetendo quel mantra che ormai è diventato il suo biglietto da visita, il suo motto. L’inno di una generazione di giovani che hanno intravisto in lui la possibilità di uscire dagli schemi. Andare ad un concerto di Achille Lauro è come andare ad una festa oscena, scandalosa e idolatra, dove puoi immergerti nella bolgia di viziosi e peccaminosi radunati ai piedi del palco a venerarlo.
E la sua iconografia rientra in questo immaginario. Nel disco c’è un’Ave Maria blasfema che recita così: “Il signore è con me: che io sia benedetto fra le donne”. Ma c’è anche una sorta di svestizione alla San Francesco che ricorda molto quella di Sanremo. L’inizio della sua redenzione, nel racconto di due lunghe notti passate in una cella di sicurezza prima di affrontare un giudice: “Avevo avuto giusto il tempo per cercare di non sembrare una cattiva persona abbassandomi i capelli, togliendomi quei bracciali dal polso e le collane dal collo: come fossero catene che m’imprigionavano in un’altra persona”.
Insomma, questo è il tema che domina l’animo di Achille Lauro e, in particolar modo, che affiora come filo conduttore di tutto il disco. La censura gli ha proibito di farlo emergere anche sulle affissioni, sbattuto di fronte agli occhi della gente: bambini e adulti, atei e credenti, uomini e donne. Ma se invece fosse tutta una strategia di marketing? Essere censurato per far parlare di sé. In fondo cera da aspettarsela una reazione del genere – eccessiva o giusta che sia – da parte delle pubbliche affissioni.
Ed è ormai appurato il fatto che condannare qualcuno o esaltarlo, in termini di eco mediatica, ha più o meno lo stesso risultato. Come nel caso della sua Rolls Royce sanremese, criticata dai ben pensanti per il chiaro riferimento alla pasticca di ecstasy chiamata, appunto, con il nome della casa automobilistica britannica. Staffelli che gli consegna il tapiro doro, qualcuno che parla di plagio, qualcun altro che mormora di un “inno alla droga”. E il trentenne romano stappa lo spumante.
Le critiche sono valse per lui come trampolino di lancio. Una sorta di Vasco Rossi del giorno d’oggi. Forse la condanna, per un personaggio alternativo, peccaminoso, punk e scandaloso, è l’unica pubblicità possibile e la censura del manifesto, poi pubblicato comunque su Twitter, faceva parte del suo pro- Genio del marketing o rockstar smodata? A voi la risposta.
Rockstar fuori controllo.