Hanno 35 e 27 anni, piumino marrone uno, nero l’altro, jeans col risvoltino, volto inespressivo. Escono dalla caserma di Rozzano tra gli applausi dei pochi presenti, una decina di parenti che li aspettano all’esterno assieme ai cronisti. «Bravi! Bravi!» urlano, accompagnando con lo sguardo l’auto dei carabinieri. Non è un dettaglio da poco in questa storia che mischia criminalità, deviato senso di giustizia e faide familiari. Mancano pochi minuti alle 18.30, i due sono in stato di fermo per omicidio aggravato, poche ore prima si erano costituti ai carabinieri accompagnati dal proprio avvocato. Sarebbero loro i killer di Antonio Crisanti, il 63enne ucciso con quattro colpi di pistola poco prima delle 18 di ieri in un parchetto accanto al supermercato “Il Gigante” di Rozzano, a sud di Milano. A tirare il grilletto sarebbe stato suo genero E.M., 35enne bennoto alle forze dell’ordine, con precedenti per droga, reati contro il patrimonio, contro la persona e resistenza a pubblico ufficiale.
FAMIGLIA SPACCATA È lui a confessarlo al magistrato durante l’interrogatorio, racconta chiaramente di aver ucciso il suocero perché lo riteneva colpevole di aver abusato della sua bambina di 5 anni. Episodi gravissimi che sarebbero avvenuti l’estate scorsa, quando il nonno ha ricevuto dalla figlia l’incarico di occuparsi della nipotina. Quando quest’ultima ha iniziato a rivelare agli adulti le attenzioni particolari del 63enne è scoppiata una bomba in casa. Riuscendo a contenere a fatica il desiderio di giustizia privata, hanno deciso di affidarsi alla procura. Labambina è stata ascoltata in audizione protetta, Crisanti è stato indagato e la famiglia si è spaccata definitivamente in due fazioni. Su consiglio di alcuni parenti il nonno è partito per Napoli (era nato nel quartiere Secondigliano) ed è rimasto lontano per un po’ di mesi. Nei giorni scorsi, forse convinto che le acque si fossero ormai calmate, è tornato in zona. Il suo errore è stato sottovalutare la minaccia del genero, che secondo i ben informati aveva chiaramente promesso di eliminarlo se si fosse presentato a Rozzano. Il 35enne, sebbene abbia ammesso le proprie responsabilità, ha precisato agli inquirenti di aver incontrato la sua vittima per caso, escludendo così la premeditazione, un’aggravante di non poco conto al momento del processo.
HA URLATO IL NOME La sua versione però non convince i carabinieri e i pm Monia Di Marco e l’aggiunto Letizia Mannella, secondo cui i killer avrebbero girato un bel po’ in scooter proprio in cerca dell‘obiettivo. Poco prima delle 18, lo hanno trovato accanto al supermercato, stava chiacchierando con alcuni conoscenti, non si è accorto del pericolo. Il genero lo ha sorpreso urlando il suo nome in modo che il capannello si aprisse e gli lasciasse spazio per prendere la mira. Senza esitazione ha esploso 5 colpi calibro 9×21 marca Gfl, quattro dei quali sono andati a segno: dueall’addome, uno alla spalla e uno – probabilmente quello fatale – al collo. Un quinto proiettile è stato trovato dagli uomini della Scientifica durante i sopralluoghi. Nessuna traccia dell’arma, i due hanno risposto alle domande ma non hanno fornito indicazioni utili per recuperarla. Nelle loro parole non c’è margine di pentimento ma neppure compiacimento. Parlano di un’azione inevitabile, di una cosa che andava fatta. Troppo lenta e troppo poco incisiva la legge dei tribunali per un reato così meschino su una bambina. L’azione di fuoco del 35enne dura pochi secondi, poi scappa su un SH guidato dal complice, incensurato e con un lavoro come manovale alla Fieradi Milano. Sulla sua paginaFacebook, sotto la foto profilo, a dicembre un contatto ha scritto “che faccia da killer”. C’è un’emoticon che sorride accanto. Due mesi dopo quelle parole non sembrano più una battuta.
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