Prime riflessioni su Quota 100
Quota 100 non costituisce un istituto inedito nel panorama previdenziale italiano, ma bensì un elemento di continuità ed evoluzione rispetto a quanto già previsto e vigente anteriormente alla Riforma Fornero.
Ci eravamo infatti “lasciati” con Quota 96 nel 2011, il noto sistema introdotto a partire dal luglio 2009 dalla precedente Riforma Damiano3. Questo prevedeva due canali di uscita per l’accesso a pensione di anzianità: Quota 96, con un minimo di 35 anni di contribuzione e 60 anni di età, ovvero 40 anni di contribuzione a prescindere dall’età (limiti che, adeguati al 2018, avrebbero naturalmente portato la Quota pensionabile al valore di 97,6, con un minimo di 35 anni di contribuzione e 61 anni e 7 mesi di età). Ci ritroviamo ora, a distanza di 7 anni, con Quota 100, a sua volta strutturata nel binomio “anzianità contributiva minima” (38 anni, questa volta), ed “età anagrafica minima” (62 anni). Un lieto ritorno, quindi, nel solco della flessibilità e della ragionevolezza dei vincoli posti al legittimo esercizio del diritto costituzionale alla tutela previdenziale.
Con limiti pensionabili peraltro meno generosi di quelli che si sarebbero maturati per effetto della naturale evoluzione della previgente normativa (nessuno sconto, quindi, tutt’altro). In mezzo a tutto ciò, l’“incidente” della Riforma Fornero. Una Riforma partorita in meno di un mese sull’onda del rischio default nazionale. Una Riforma che ha prodotto sofferenze a migliaia di lavoratori e famiglie italiane e che ha dovuto necessariamente essere puntellata da molteplici e costosi “strumenti di riparo”: 8 provvedimenti di salvaguardia e relativi decreti attuativi, benefici per lavoratori precoci, lavoratori gravosi, libera cumulabilità dei contributi previdenziali versati in differenti gestioni, Ape Sociale, Ape Volontario (un mutuo per poter andare in pensione…). Una Riforma che ha visto bloccare il sacrosanto diritto all’adeguamento al costo della vita nei confronti delle pensioni di poco superiori ai 1400 euro mensili lordi. Una Riforma che ha oramai assolto al suo compito di regime eccezionale determinato da uno stato di necessità ed urgenza, e che pertanto deve ora lasciare il posto alla riaffermazione del Diritto alla Previdenza Sociale. Un Diritto che non può neanche lontanamente ipotizzare che un lavoratore veda collocarsi i propri traguardi pensionistici alla improbabile (e imbarazzante) età di 70 anni (rectius, 71, a partire dal 2019, salvo ulteriori incrementi…).
Quota 100, quindi, come nuovo (e riaffermato) strumento di flessibilità per l’accesso a “pensione di anzianità”. E il canale alternativo dei 40 anni? (quello precedentemente stabilito e che consentiva il pensionamento a prescindere da un limite anagrafico minimo). A legislazione vigente questo verrebbe garantito dall’attuale pensione anticipata, quella introdotta dalla Riforma Fornero, e che prevede ancora nel 2018 un requisito contributivo minimo di 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. Requisito elevabile nel biennio 2019/2020 rispettivamente a 43 anni e 3 mesi e 42 anni e 3 mesi per effetto dell’adeguamento alle aspettative di vita. Dalle indiscrezioni giornalistiche sembrerebbe emergere che questo adeguamento (l’incremento di 5 mesi dal 2019) venga congelato. Ma, ancor di più, sembrerebbe allo studio l’estensione generalizzata del canale di pensionamento con i soli 41 anni di contribuzione, canale attualmente appannaggio della sola categoria dei lavoratori precoci. In tal modo, verrebbe completamente ricostruito il mosaico previsto dalla normativa anteriore alla Riforma Fornero, basato sul duplice canale: quota (legata anche all’età) e anzianità contributiva (svincolata da un’età minima).
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