Pierfrancesco Favino è Tommaso Buscetta nel film ‘Il traditore’



Gli occhiali scuri calcati sugli zigomi che il chirurgo estetico, nel tentativo di cambiare i connotati, ha gonfiato. I capelli impomatati e pettinati all’indietro. Il doppiopetto grigio ben allacciato. A guardarlo mentre entra nell’aula bunker di Palermo protetto dai carabinieri, tra le urla di protesta dei mafiosi nelle gabbie degli imputati, è difficile credere che quello che incede verso la Corte sia un attore, non l’originale. Pierfrancesco Favino, non Tommaso Buscetta, il pentito per antonomasia, colui che per primo nel 1984 svelò la struttura di Cosa Nostra e le cui rivelazioni portarono dritti al Maxiprocesso. La somiglianza tra i due è impressionante ed è alla base de Il traditore, per la regia di Marco Bellocchio, unico film italiano in concorso al Festival del cinema di Cannes dal prossimo 14 maggio.



«Naturalmente sono contento, è una gara e posso solo accettarla cercando di fare il più bel film possibile, correndo freneticamente perché ci devo lavorare ancora e c’è veramente poco tempo», ha commentato il regista a caldo, ammettendo la sorpresa. «È un film civile, o di denuncia sociale come si diceva una volta, che evita però ogni retorica e ideologia. E poi ho scoperto in questo film, sempre da dilettante, il siciliano, lingua meravigliosa spesso storpiata, ridicolizzata, caricaturizzata anche dal nostro cinema». Il centro del racconto è dunque Buscetta, la sua storia e per l’appunto il suo “tradimento”. «In verità», ha detto Bellocchio, «chi ha veramente tradito i principi “sacri” di Cosa Nostra non è stato Tommaso Buscetta, ma Totò Riina e i Corleonesi. Come si vede due modi opposti di tradire».

E ancora: «Nella storia tradire non è sempre un’infamia. Può essere una scelta eroica. I rivoluzionari, ribellandosi all’ingiustizia anche a costo della vita, hanno tradito chi li opprimeva e voleva tenerli in schiavitù». Un racconto storico – tema caro a Bellocchio che già in Buongiorno, notte aveva regalato al sequestro di Aldo Moro un finale pieno di speranza e purtroppo immaginario – una materia umana immersa nel contesto politico di un’Italia che ancora oggi non ha fatto i conti con il suo passato più oscuro. Anche per questo, il film debutta nelle sale il 23 maggio, nell’anniversario numero 27 dell’attentato di Capaci in cui fu ucciso Giovanni Falcone. Proprio davanti a lui e a lui soltanto Buscetta, dopo svariati arresti, latitanze e fughe, aveva infine deciso di parlare.

Per 45 giorni filati si rinchiusero in una stanzetta della questura di Roma. Soltanto loro due, il mafioso e il giudice, munito solo di fogli bianchi e di una penna stilografica, neanche un appuntato per verbalizzare. Era il 16 luglio 1984 e si dice che quell’interrogatorio fosse partito al contrario. Con un avvertimento, ma anche con una profezia: «L’avverto, signor giudice, dopo questo racconto lei diventerà una celebrità. Ma cercheranno di distruggerla. Non dimentichi che il conto che ha aperto con Cosa Nostra non si chiuderà mai. È sempre del parere di interrogarmi? ». La risposta è nella storia, le conseguenze per Falcone pure. Tra i due nacque un legame particolare – qualcuno, quando la sorte drammatica del magistrato fu compiuta, si azzardò a scomodare il termine “amicizia” – ma del resto Buscetta è tuttora un personaggio ambiguo quanto sorprendente.

Un criminale, con un proprio sistema di valori, per quanto distorto, uno che fino alla morte, avvenuta nel 2000 per malattia, negli Stati Uniti, dove viveva sotto falsa identità, rimarcò il suo dispiacere più grande. Ovvero che, pur avendo parlato bucando il muro impenetrabile di omertà sulla mafia e, alla fine, pure sui suoi legami con la politica, Cosa Nostra non era stata distrutta. Una sconfitta personale, per lui che nelle guerre tra fazioni e soprattutto dopo l’inizio della collaborazione con Falcone, aveva perso per vendette trasversali otto membri della famiglia. Due dei suoi figli scomparvero senza che se ne sapesse più nulla, un nipote venne torturato orribilmente fino alla morte. La vita di Buscetta, nato a Palermo nel 1928, ultimo di 17 figli, era stata segnata fin dall’inizio. Sposato a 16 anni, affiliato giovanissimo alla famiglia di Porta Nuova, la sua esistenza si snoda tra gli affari criminali e poi in crescente contrapposizione con i Corleonesi di Totò Riina, il nemico giurato.

Vive tra la Sicilia e il Sudamerica, da qui gli arriva il soprannome di boss dei due mondi. Anche Il traditore in effetti è stato in parte girato in Brasile, patria d’elezione di don Masino e infine ultimo luogo in cui aveva potuto girare da latitante, fino a che non verrà arrestato, a ottobre del 1983, a San Paolo. Fu allora che maturò la decisione di pentirsi. Anzi no, per usare le sue stesse parole: «Dagli anni ‘70 in poi Cosa Nostra ha sovvertito l’ideale, poco pulito per la gente che vive dentro alla legge, ma tanto bello per noi che vivevamo in questa associazione. Io non condivido più quella struttura a cui appartenevo». Insomma, «non sono un infame». Un uomo “d’onore”, nel senso malavitoso del termine, che rese possibile il Maxiprocesso che, tra il 1986 e il 1992, portò alla sbarra 460 boss, con condanne per un totale di 2.665 anni di carcere.

E poi? Per Buscetta era arrivato il programma di protezione all’estero, interrotto da qualche clamorosa intervista (memorabile quella a Enzo Biagi). E da qualche curiosa richiesta da parte dei giornali, come quella volta che Repubblica, era il 1995, gli chiese una recensione della settima edizione dello sceneggiato La piovra. «Un film già visto», aveva commentato don Masino non senza ironia. «La realtà della mafia e della vita dei mafiosi supera di gran lunga la fantasia. Ma della pericolosità di Cosa Nostra, ecco di questo i politici non vogliono rendersi conto. Sono loro che frappongono gli ostacoli maggiori al lavoro dei magistrati». Chissà cosa direbbe ora che, grazie al volto prestatogli magistralmente da Favino, la storia del suo tradimento rappresenta l’Italia a Cannes.



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