Controcopertina

Josefa, smalto sul barcone Ora alle migranti fanno la manicure



È divampata la polemica sui social network intorno all’immagine della clandestina soccorsa in alto mare dalla Open Arms che sfoggiava una manicure perfetta con tanto di unghie laccate di smalto rosso fuoco,pur avendo trascorso 48 ore in ammollo, attaccata ad un pezzo di legno. I malpensanti avevano addirittura ipotizzato che la clandestina non fosse stata recuperata dopo due giorni dal naufragio e che la sua storia fosse stata costruita ad arte delle Ong al fine di muovere accuse vergognose nei confronti di coloro che avrebbero dovuto mettere in salvo la signora e che avrebbero preferito abbandonarla al suo destino, ossia guardia costiera libica e addirittura governo italiano, ormai tirato in ballo sempre e tacciato di turpi crimini anche quando non c’entra un bel niente.



Alla fine, però, la vicenda è stata chiarita. Le unghie di Josefa, che ora vuole querelare la Libia, poiché la guardia costiera l’avrebbe avvistata omettendo di trarla in salvo, e l’Italia,
poiché avrebbe rifiutato di fare sbarcare sul suo territorio i cadaveri recuperati dalle acque, erano in effetti smaltate. Tuttavia, il colore è stato applicato dopo il salvataggio. Insomma, la manicure è stata eseguita a bordo dalle volontarie della Ong, al fine di fare rilassare la donna, stremata da quell’esperienza tragica. È questo ciò che ha raccontato al Corriere della Sera Veronica
Alfonsi, delTufficio stampa italiano di Open Arms.

Ci accuseranno forse di “razzismo”, termine improprio con il quale ormai viene identificato qualsiasi atteggiamento o qualsiasi affermazione che mira a scardinare una scellerata politica di accoglienza di chiunque, illegalmente, scelga di mettersi in viaggio via mare per raggiungere l’Europa eludendo ogni tipo di controllo e godendo altresì dei privilegi e dei vantaggi garantiti dallo status di richiedente asilo. Tuttavia, occorre mettere in luce realtà ogni giorno mistificate da chi si batte per raccattare migranti in acque libiche per poi vomitarli sulle nostre strade trasformandoli in un baleno da eroi che hanno sfidato i mari per scappare dalle violenze in rifiuti sociali da cui stare a debita distanza.

Innanzitutto Josefa, la quale ha vissuto sulla sua pelle la drammaticità del ritrovarsi giorno e notte alla deriva, da sola, in mezzo al nulla, “intende denunciare l’Italia per il rifiuto a sbarcare i cadaveri nel porto di Catania”, si legge sul quotidiano Diario de Mallorca. Ma lo farebbe in qualità di chi o di cosa? In quanto genitore o tutore o rappresentante legale dei defunti? È evidente che la donna è indottrinata e manovrata da qualcuno. In secondo luogo, è ridicolo che sulle navi delle Ong ai migranti venga fatto servizio di manicure. Quindi, se non ci possiamo indignare, consentiteci almeno di stupirci.

Infine, è bene sottolineare che coloro che salgono sui gommoni con tanto di bebé tra le braccia e figli minori al seguito, come hanno fatto alcuni compagni di avventura di Josefa (purtroppo deceduti), spesso non sono genitori disperati, bensìfolli, perché mettono in pericolo la vita della prole tentando un viaggio della fortuna che rischia – come sovente accade e non per colpa del governo italiano, il quale di quello che succede sulle spiagge libiche non si può occupare – di concludersi in modo tragico già a poche miglia dalla costa africana. Chi scappa dalla guerra, e mira a salvarsi la vita, cerca rifugio nello Stato più vicino, non sceglie la destinazione come si farebbe dal tour operator. Prima di mettersi in mare su un gommone sgonfio, ammaccato e stracarico, c’è la possibilità di varcare i confini di altri Paesi africani, in cui la guerra non esiste, Nazioni progredite e civili, come il Marocco, o la Tunisia.

Insomma, è davvero necessario correre il concreto pericolo di morire in mare per sfuggire dalla guerra? Dobbiamo concludere che ogni chilometro quadrato del continente nero sia insanguinato da una macelleria perenne e che non ci sia altro da fare che buttarsi nel Mediterraneo? È evidente che l’obiettivo di coloro che partono non è scappare dai teatri di conflitti civili o dalla fame assoluta, bensì raggiungere in modo illegale l’Europa approfittando della situazione di totale anomia in cui versa ancora l’area libica. Persino a costo di vedere morire i propri figli.
Le immagini di uomini giovani, alti e robusti nonché di donne nutrite e in salute, che sbarcano nei nostri porti, ci fa sorgere un lecito sospetto: non è che forse ci stanno prendendo per i fondelli?



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