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Dieselgate, nuovo scandalo: richiamate 100.000 auto Opel



Industrializzazione della riqualificazione energetica dell’edilizia Iniziamo con un cavallo di battaglia storico dell’ambientalismo. Parliamo dei programmi per aumentare l’efficienza dei consumi di energia. Pensiamo solo alla gigantesca opera di riqualificazione energetica “spinta” del parco edilizio che ci attende nei prossimi decenni, fattibile solo grazie a radicali innovazioni delle modalità di intervento. Una discontinuità che è tanto più necessaria, se si considera il calo negli ultimi decenni della produttività del lavoro nel settore costruzioni, a fronte invece di un raddoppiamento di questo indice nel settore manifatturiero. A migliorare la situazione contribuirà la digitalizzazione nelle fasi della progettazione, costruzione e manutenzione degli immobili. Una delle applicazioni più interessanti è l’industrializzazione della riqualificazione che consente una drastica diminuzione dei costi e dei tempi di intervento (dieci giorni per un piccolo edificio). Il notevole aumento della produttività porterà a una riduzione relativa degli occupati per singolo edificio e a una loro redistribuzione in altri comparti manifatturieri. Ma attenzione: parliamo di soluzioni che permettono di aggredire più velocemente e con maggiori risparmi di energia l’amplissimo mercato delle costruzioni con elevate dispersioni.



Oggi si riqualifica annualmente solo l’1% delle superfici abitate mentre occorre passare al 3% per raggiungere gli obiettivi climatici al 2030. L’aumento degli interventi, grazie a soluzioni innovative e a nuovi modelli di business, crea opportunità di lavoro. Secondo alcune stime (Bipe) una loro applicazione su larga scala in Europa potrebbe creare 2 milioni di occupati. È evidente però che per trasformare un comparto come quello dell’edilizia, lento nel recepire le innovazioni, sarà necessario un input da parte dello Stato in modo da favorire la riqualificazione delle imprese interessate. Un percorso virtuoso, che peraltro alcune eccellenze già hanno iniziato a esplorare. La sfida della mobilità elettrica E veniamo al futuro della mobilità, dove s’intravedono conseguenze occupazionali decisamente più ampie. In ambito urbano è ragionevole immaginare, in Europa e non solo, una contrazione del numero complessivo di auto in circolazione sempre più condivise e senza guidatore e un rapido declino di quelle a combustione interna. Le strategie climatiche accentuano l’importanza del passaggio alla mobilità elettrica. Le auto vendute nel 2025 nell’Ue dovranno raggiungere un livello di emissioni di 68-78 grammi CO2 /km (35-40% in meno rispetto alle emissioni delle nuove auto in Italia) raggiungibili con una quota di veicoli elettrici del 15-25%.

Per quanto riguarda gli scenari futuri, si assiste a una continua corsa al rialzo. Anche alcune compagnie petrolifere ormai ritengono che alla fine del prossimo decennio si avranno 100 milioni di auto su strada, con chiare implicazioni sulle vendite di greggio. «La General Motors crede in un futuro tutto elettrico» ha dichiarato il mese scorso Mark Reuss, presidente di Gm North America. Parliamo di un mercato di 2 mila miliardi di dollari l’anno, nel quale le auto elettriche rappresentano per ora solo l’1%, ma che è destinato a drastici cambiamenti. Con quali conseguenze occupazionali? Ancora una volta, dipende dalle scelte adottate dai singoli produttori e dalle politiche dei vari paesi. L’automazione dei processi produttivi ha già portato a una forte riduzione del lavoro necessario e il passaggio all’auto elettrica comporterà un’accelerazione di questo processo. Parliamo di un numero molto inferiore di componenti da assemblare (200 contro 1.400) e di una semplificazione dei processi di lavorazione. Occorre riflettere sulla possibilità di cogliere nuove opportunità. Le case automobilistiche, per esempio, si stanno già attrezzando per fornire servizi di mobilità sempre più articolati e quasi tutte hanno avviato programmi per il passaggio all’elettrico.

Ma anche se parliamo in Europa di investimenti di decine di miliardi di euro, le strategie paiono troppo caute. Perché a fronte di una riduzione dell’occupazione con il passaggio all’elettrico, c’è l’ulteriore concreto rischio di uno spostamento del baricentro produttivo verso l’Asia. La Cina, incapace di competere sul fronte dei veicoli convenzionali, sembra voler tentare il sorpasso puntando sull’elettrico. Nel giro di soli tre anni è divenuta leader nel settore arrivando a coprire, nel secondo trimestre 2017, il 44% delle vendite mondiali di questi veicoli ed ha annunciato di voler bandire la vendita di auto a benzina e gasolio. Com’è noto, uno dei fattori decisivi in questa corsa riguarda la produzione dei sistemi di accumulo che al momento incidono per il 30-50% sul costo dei veicoli elettrici. Pechino si sta attrezzando velocemente, tanto che nel 2022 ospiterà il 65% della capacità produttiva mondiale delle batterie al litio. Considerato il valore strategico dell’accumulo, occorre recuperare il terreno perso puntando su progetti sovranazionali, sul modello Airbus utilizzato per l’aviazione. Una direzione che è sollecitata dalla Commissione Europea la quale intende finanziare con 2 miliardi di euro l’avvio di questo percorso. E l’Italia dovrebbe guardare con attenzione ai suoi possibili sviluppi. Va detto poi che l’incredibile rapidità della riduzione del prezzo degli accumuli taglia fuori dai giochi l’alimentazione a idrogeno con celle a combustibile su cui puntano i giapponesi e metterà in difficoltà anche le alimentazioni alternative come il Gpl e il metano, punti di forza in Italia.

Creare le condizioni per la rivoluzione elettrica anche in Italia Facciamo adesso una riflessione più specifica sul nostro Paese, partendo da alcuni dati. Innanzitutto dal ruolo positivo della diffusione di veicoli elettrici, considerato il contributo nel ridurre le emissioni climalteranti e nel combattere il grave inquinamento dei nostri centri urbani. Già con l’attuale mix di generazione elettrica le emissioni di CO2 risultano inferiori a quelle degli altri veicoli. Un vantaggio destinato a crescere nel tempo, considerando che le rinnovabili copriranno almeno il 50% della domanda elettrica alla fine del prossimo decennio. Peraltro, la presenza di milioni di mezzi elettrici rappresenterà un sistema decentrato di accumulo molto utile nel gestire la rete grazie a infrastrutture di ricarica bidirezionali. L’urgenza di un salto di qualità è sottolineata anche nel rapporto sulla “Decarbonizzazione dell’economia italiana” appena pubblicato da Rse: al 2030 le attuali politiche sul trasporto e l’edilizia consentirebbero infatti di ridurre solo del 24% le emissioni rispetto al 2005, contro il taglio del 33% che l’Italia dovrà raggiungere.

Il secondo elemento di riflessione riguarda il ridimensionamento industriale dell’auto. Nel 2016, la produzione di automobili in Italia è stata di 713 mila unità, valori più che dimezzati rispetto a venticinque anni fa. Occorre puntare su strade nuove, e l’elettrico potrà essere decisivo per un rilancio. E qui veniamo al terzo dato, riferito proprio alla fotografia della mobilità elettrica, il cui ruolo è oggi insignificante con 1.370 veicoli venduti nel 2016, pari allo 0,07% delle vendite totali. Eppure non è sempre stato così. Fino al 2000 il nostro paese aveva il record di diffusione della mobilità elettrica in Europa, con 21 mila tra auto, furgoni e quadricicli, 284 mila ciclomotori e biciclette a pedalata assistita e mille minibus o bus elettrici e ibridi. Tutti mezzi in larga parte prodotti nel nostro Paese. Analogamente al solare e all’eolico, che in quegli anni vedevano tecnologie di imprese italiane poi finite nel nulla, la vitalità industriale sull’elettrico si è spenta nell’assenza di politiche nazionali e locali coordinate. Ulteriori considerazioni meritano poi le realtà imprenditoriali coinvolgibili in un progetto per l’auto del futuro. Esistono 2.500 aziende della componentistica auto che in passato operavano prevalentemente per la Fiat che si sono riorganizzate anche come fornitrici di case estere. Ma parliamo anche di grandi aziende come St Microelectronics, che tra i suoi clienti ha marchi come Tesla, cui fornisce i semiconduttori di potenza per gli inverter dei motori. Citiamo Magneti Marelli, società di punta nella componentistica elettrica, che il gruppo Fca cui appartiene sembra voglia vendere e che potrebbe diventare un punto nazionale di aggregazione, magari con un’iniezione di capitale pubblico. Ci sono poi diverse piccole e interessanti realtà che cercano di ricavarsi uno spazio nel percorso di diffusione della mobilità elettrica. Non possiamo non puntare i riflettori sull’auto senza guidatore. L’esperienza ventennale della VisLab, che dopo l’acquisizione da parte dall’americana Ambarella ha visto crescere fino a cinquanta gli ingegneri del team impegnato a Parma, è un ottimo esempio delle perle che abbiamo a disposizione.

E naturalmente dobbiamo parlare di Fca, che con i suoi 80 mila dipendenti rimasti in Italia, rappresenta il principale datore di lavoro industriale nel Paese. Marchionne, paradossalmente, continua ostinatamente e sciaguratamente a non credere alla mobilità elettrica. Una miopia che rischia di far fare alla Fca la fine della Kodak e che si trasmette ai settori decisionali del Paese. Fa impressione leggere, per esempio, il “Rapporto sul settore automotive” promosso dalla Commissione Industria del Senato e pubblicato nel luglio 2015 che nelle sue 239 pagine non cita l’auto elettrica. Alla luce di questo quadro, possiamo immaginare un percorso virtuoso che consenta alle nostre aziende di sfruttare i nuovi scenari che si aprono? Guardare alla Cina? Esiste un forte tessuto imprenditoriale che permette di ipotizzare uno sviluppo della mobilità elettrica, anche creando sinergie internazionali. Se poi si realizzerà il megaprogetto europeo sugli accumuli, ci si potrà concentrare sulla costruzione dei mezzi, puntando su qualità, “Italian Style” e guida autonoma. Analogamente alla Cina, che sta spingendo sull’elettrico per conquistare uno spazio sulla scena mondiale dell’auto, l’Italia potrebbe uscire dal declino proprio imboccando con decisione questa strada. Magari con capitali cinesi. Ricordiamo che Pechino ha investito sia in Tesla sia in start-up elettriche statunitensi: Faraday, Lucid, Fisker e Nio. Per non parlare della Volvo che, acquisita in piena crisi dalla cinese Geely, vive ora un rilancio con fatturato e occupati in forte crescita e che dal 2019 venderà solo modelli elettrici. Un’alleanza intelligente potrebbe aprire spazi interessanti anche nell’enorme mercato cinese che quest’anno riguarderà ben 29 milioni di vetture (un terzo del totale mondiale). Gli altri percorsi possibili verso un ruolo nella mobilità elettrica sono rappresentati da un rinsavimento di Fca, dall’ingresso di qualche innovativo e forte player finanziario/imprenditoriale o dalla decisione di mettere in gioco un forte impulso pubblico. Un target chiaro per il 2030 È evidente che per smuovere le acque servirebbe un chiaro indirizzo da parte della politica che, succube in passato della Fiat, oggi è la grande assente. Mentre Francia, Regno Unito, Olanda, Norvegia, Indonesia, Cina e India ipotizzano la fine della vendita delle auto a combustione interna, questo potente messaggio non è ancora venuto dall’Italia (salvo una timida indicazione al Governo da parte del Senato). Eppure, una decisione di questo tipo è importante perché invia un segnale chiaro alle imprese, orientando importanti investimenti. E anche Fca dovrebbe rivedere le proprie strategie. Fissare una data, il 2030, chiaramente non basta. Occorre individuare una politica che affronti tutti gli aspetti necessari al decollo dell’elettrico. Un piccolo segnale di attenzione è venuto dal tavolo di Raffaele Tiscar presso la Presidenza del Consiglio, ma manca ancora una strategia complessiva. Sarebbe auspicabile un impegno mirato del Governo sul versante della ricerca (una sorta di “Industria 2025”) per offrire alle nostre imprese l’opportunità di rafforzarsi in questo settore strategico e andrebbe dato slancio alla realizzazione delle infrastrutture di ricarica, un settore in cui fortunatamente l’impegno dell’Enel e di altre imprese potrebbe colmare nel giro di pochi anni lo storico ritardo. Come pure andrebbe avviata un’intelligente politica fiscale, mentre gli Enti Locali dovrebbero muoversi in modo coordinato e incisivo per favorire la mobilità elettrica e condivisa. Insomma, la corsa è partita e non si potrà fermare. Dobbiamo solo capire se l’Italia vorrà cogliere le enormi opportunità di questa trasformazione e delineare i contenuti di una strategia aggressiva.



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