Il diabete mellito di tipo due è una malattia metabolica ad andamento cronico degenerativo e rappresenta più del 90% dei casi di diabete nel mondo. Il nesso tra diabete mellito tipo due sovrappeso ed obesità è molto forte, negli Stati Uniti fino a circa il 60% dei pazienti diabetici sono anche obesi. Il diabete mellito tipo due è caratterizzato da un costante aumento dei livelli di zucchero nel sangue causato nelle fasi iniziali della malattia da una condizione di scarsa sensibilità del nostro stesso organismo all’insulina, seguita dopo un primo periodo di compenso dallo sviluppo di una insufficienza produzione di insulina stessa da parte del pancreas, che pretenda decrescere inesorabilmente durante la storia naturale della malattia.
Gli sbalzi glicemici e in particolare un eccesso di zucchero nel sangue nei diabetici (quando la malattia non è ben controllata) possono danneggiare lo strato di grasso protettivo che riveste il cuore, favorendo le complicanze cardiovascolari che rappresentano la prima causa di morte nei pazienti con diabete mellito: sono infatti alla base del 65% dei decessi nei diabetici.
Lo rivela uno studio coordinato da Pietro Formisano, docente di Patologia Clinica presso l’Università Federico II di Napoli e membro della Società Italiana di Diabetologia, e presentato a Berlino in occasione di EASD 2018, il convegno della European Association for the Study of Diabetes. Il grasso ‘epicardico’ partecipa al funzionamento cardiaco regolando l’afflusso di grassi e inviando segnali importanti per il funzionamento del tessuto cardiaco e vascolare. Inoltre contiene cellule staminali, preziose per i processi riparativi cardiaci.
Si è visto che se il paziente va incontro a picchi glicemici, il grasso epicardico diviene meno efficiente e invecchia precocemente, meccanismo che può contribuire a spiegare la peggiore prognosi cardiovascolare tipica delle persone con diabete.
“Il nostro studio – spiega Serena Cabaro, Dipartimento di Scienze mediche traslazionali, Università Federico II, Napoli – è andato ad analizzare le cellule staminali presenti nel tessuto adiposo epicardico derivate da pazienti con diabete di tipo 2 sottoposti a bypass coronarico. L’isolamento di cellule staminali da grasso epicardico è eseguito nel nostro laboratorio grazie alla collaborazione con la cardiochirurgia della Federico II di Napoli”.
Si è visto chiaramente che l’iperglicemia influenza lo stato strutturale e metabolico del tessuto adiposo epicardico, cosa a cui corrisponde una peggiore prognosi delle patologie cardiovascolari. In particolare, i risultati dello studio dimostrano anche che la glicemia elevata altera il funzionamento delle cellule staminali mesenchimali del tessuto adiposo epicardico, suggerendo una possibile riduzione del potenziale rigenerativo di tali cellule in pazienti diabetici.
“E’ sempre più importante capire come il grasso presente in distretti corporei specifici – afferma Formisano – possa essere danneggiato da alterazioni metaboliche e danneggiare, a sua volta, la funzione di organi e tessuti vicini”. “Già oggi la misurazione dello spessore del grasso epicardico rappresenta un parametro da considerare nella valutazione del rischio cardiovascolare. L’identificazione di specifiche molecole prodotte dalle cellule adipose localmente – conclude – potrebbe essere di enorme supporto sia per la prognosi che per la messa a punto di strategie terapeutiche innovative”.
Identikit del diabete mellito tipo due
Subdolo, nelle fasi iniziali diabete di tipo due è scarsamente del tutto sintomatico, il paziente non è percepisce la reale gravità e tende a sottovalutarlo.
Cronico, il diabete mellito tipo due già allo stadio iniziale ed in assenza di sintomi irrilevanti causa un danno cronico indotto dall’iperglicemia a carico dei vari apparati organi, che può essere manifesto già la diagnosi.
Dannoso ma controllabile è meglio se si dalla diagnosi
Un controllo precoce del diabete già dal momento della diagnosi tramite cure a atti a mantenere livelli di glicemia appropriati è in grado di offrire un effetto protettivo sullo sviluppo di complicanze vascolari a lungo termine.
È ampiamente noto che le complicanze cardiovascolari costituiscono il maggior problema del diabete. L’aspettativa comune è sempre stata quella di poter contare su farmaci che da un lato assicurassero un ottimale controllo glicemico e dall’altro garantissero anche una certa protezione cardiovascolare. Queste attese sono state fino a ora vane. Non solo, ma nel caso di alcuni farmaci, vedi rosiglitazone, sarebbe addirittura emersa una certa pericolosità legata al suo uso. Il caso del rosiglitazone non sembra isolato, tanto è vero che negli ultimi anni diverse segnalazioni suggeriscono di essere molto cauti con due classi di farmaci, sulfaniluree e glinidi, che pure sono largamente usate da decenni. Allo scopo di limitare al massimo i danni, la Food Drug Administration (FDA) ha introdotto la valutazione obbligatoria del rischio cardiovascolare per tutti i nuovi farmaci antidiabetici che si affacciano all’orizzonte e che chiedono l’approvazione alla messa in commercio. Negli ultimi anni si è assistito a una vera e propria esplosione di nuove classi di farmaci antidiabetici, che hanno meccanismi d’azione molto diversi tra loro e a volte potenzialmente sinergici. Motivo per cui la classe medica ha bisogno di conoscere ed essere rassicurata sui potenziali rischi cardiovascolari legati a questi nuovi farmaci. Lo scopo di questo volume è di fare il punto sugli aspetti di sicurezza cardiovascolare sia dei nuovi sia dei vecchi farmaci. Ritengo che questo volume possa essere un utile strumento di aggiornamento su un argomento non solo di estremo interesse ma dal rilevante impatto clinico pratico.
I farmaci
Metformina
Per anni si è affermato che la metformina riducesse il rischio delle complicanze CV; questa affermazione traeva spunto dallo studio UKPDS 34 (UK Prospective Diabetes Study) nel quale in un sottogruppo di pazienti in sovrappeso l’utilizzo della metformina si associava a una minore morbilità e mortalità CV rispetto ai pazienti trattati con sulfanilurea e insulina. In realtà quello studio aveva una serie di limiti, il principale dei quali era un sottodimensionamento della casistica. Una recente meta-analisi ha dimostrato che la metformina non sembra avere ulteriori effetti positivi sugli eventi CV, oltre quelli determinati dal miglioramento del controllo glicemico; la stessa analisi escludeva, però, qualsiasi effetto negativo della metformina sulla morbilità e mortalità CV. Considerando la sua sicurezza, il basso costo e possibili effetti su altri endpoint non CV, quali i tumori, la metformina viene suggerita come farmaco di prima linea nella cura del T2DM in tutte le linee guida.
Glitazoni
I tiazolidinedioni o glitazoni, agonisti dei peroxisome-proliferator-activated receptors (PPARs), regolano l’espressione genica promuovendo una migliore utilizzazione del glucosio e una sua ridotta produzione a livello dei tessuti periferici. Attualmente sul mercato italiano è disponibile solo il pioglitazone; questo farmaco ha mostrato di ridurre marker surrogati di rischio CV, quali la disfunzione endoteliale, la pressione del sangue, la dislipidemia e livelli circolanti di citochine infiammatorie. Il pioglitazone è in grado di incrementare i livelli di colesterolo HDL, di ridurre i trigliceridi, l’apolipoproteina B e le LDL dense, mentre aumenta le LDL di maggiori dimensioni. L’effetto complessivo di pioglitazione sulla frazione LDL è neutro rispetto a rosiglitazone che invece aumenta i livelli di colesterolo LDL. Lo studio PROactive ha dimostrato che pioglitazone riduce l’endpoint cumulativo di mortalità complessiva, infarto miocardico non fatale e ictus in pazienti con diabete di tipo 2 a elevato rischio di eventi macrovascolari. Un’analisi posthoc di questo studio evidenzia gli effetti benefici di pioglitazone sulla frazione HDL come la causa della riduzione di eventi CV. Il profilo di sicurezza CV di rosiglitazone, invece, resta controverso, anche se al suo utilizzo è stata tolta la limitazione imposta qualche tempo fa dalla Food Drug Administration (FDA) negli Stati Uniti. I glitazoni si associano a un aumentato rischio di scompenso cardiaco. Tale rischio risulta significativamente maggiore nei soggetti in terapia insulinica trattati con dosi più elevate di glitazoni che abbiano altri fattori di rischio per insufficienza cardiaca. I glitazoni non sono raccomandati nei pazienti anziani a rischio di insufficienza cardiaca e sono controindicati nei pazienti con classe funzionale NYHA di grado III-IV. Le linee guida dell’American Heart Association e il consensus statement dell’American Diabetes Association suggeriscono un monitoraggio clinico per la comparsa di segni e sintomi di edema o scompenso cardiaco nei pazienti trattati con glitazoni.
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