Diabete mellito di tipo due è una malattia metabolica ad andamento cronico degenerativo, e rappresenta più del 90% dei casi di diabete nel mondo. Il nesso tra diabete mellito tipo due e sovrappeso ed obesità è molto forte. Negli Stati Uniti fino a circa il 60% dei pazienti diabetici sono anche obesi.
Il diabete mellito tipo due è caratterizzato da un costante aumento dei livelli di zucchero nel sangue causato nelle fasi iniziali della malattia da una condizione di scarsa sensibilità del nostro stesso organismo all’insulina, seguita dopo un primo periodo di compenso dallo sviluppo di una insufficiente produzione di insulina stessa da parte del pancreas, che poi, tende a decrescere inesorabilmente durante la storia naturale della malattia.
Anche se l’intuizione di Strachan, oggi nota come teoria dell’igiene, riguardava disturbi di natura allergica, i ricercatori in seguito hanno preso in prestito il suo principio fondante – l’esposizione, o la mancata esposizione, alle influenze ambientali – per spiegare l’aumento storico di altre malattie, tra cui poliomielite, sclerosi multipla e diabete di tipo 1. Numerose indagini epidemiologiche hanno rilevato schemi nell’incremento delle malattie via via che l’industrializzazione si diffondeva dall’Europa al Nord America e oltre. Ovunque diminuiva il tasso di infezioni (e di mortalità) in età infantile, aumentava l’incidenza di alcune malattie precedentemente rare, anche se in modo graduale e non uniforme.
Le prime grandi epidemie di poliomielite si verificarono alla fine dell’Ottocento. In alcune parti del mondo, l’incidenza della sclerosi multipla, in cui il sistema immunitario aggredisce il rivestimento protettivo che ricopre particolari cellule nervose, è raddoppiata nella seconda metà del XX secolo. Il diabete di tipo 1, che si verifica quando l’organismo distrugge le cellule del pancreas produttrici dell’ormone insulina (che permette di ricavare energia dal glucosio) ha iniziato a diffondersi maggiormente nella prima metà del Novecento per poi esplodere negli anni cinquanta.
Resta ancora da capire in che modo un’esposizione precoce a determinati virus o batteri possa proteggere dall’insorgenza di una serie di malattie apparentemente non collegate tra loro. In qualche modo le infezioni insegnano all’organismo in fase di sviluppo a gestire i patogeni. Inoltre, la mancata esposizione a questi microbi può indurre l’organismo ad aggredire sé stesso. In particolare, un numero consistente di ricerche fa risalire l’impennata dei casi di poliomielite e di diabete di tipo 1 a un gruppo piuttosto ampio di patogeni, detti enterovirus.
A differenza del diabete di tipo 2, molto più comune e spesso associato all’aumento di peso in età adulta, quello di tipo 1 in genere colpisce prima dei vent’anni. Nostri esperimenti su topi che si ammalano di diabete di tipo 1 hanno rivelato un meccanismo complesso per cui uno stesso ceppo di enterovirus può sia prevenire sia scatenare la malattia, a seconda dell’età in cui il topo contrae l’infezione. Supponendo che i risultati siano confermati anche nell’essere umano, un vaccino basato su virus presenti nelle feci potrebbe in teoria prevenire il diabete di tipo 1 in molti casi.
Un secolo di ipotesi
La nostra ricerca è partita da una domanda fondamentale, simile a quella a cui aveva cercato di rispondere Strachan: perché il diabete di tipo 1, cosi raro in passato, negli anni cinquanta era diventato una piaga? Nei tempi antichi i medici greci, arabi, indiani e cinesi descrissero un raro insieme di sintomi – tra cui rapida perdita di peso, sete anomala e urine dolciastre – quasi sicuramente prodotto dal diabete di tipo 1. Sulla base delle informazioni estrapolate dai dati dei singoli ospedali, i ricercatori calcolano che agli inizi del Novecento circa uno o due bambini su 100.000 sotto i 15 anni sviluppava il diabete di tipo 1. Oggi in alcune parti degli Stati Uniti la cifra si avvicina a 20 su 100.000 e in Finlandia supera i 60 su 100.000. E purtroppo questi numeri continuano a salire.
L’incremento però non è stato costante. Dopo anni di lieve aumento, a metà del XX secolo il diabete di tipo 1 ha conosciuto un’esplosione. Da allora gli epidemiologi hanno calcolato una crescita media annuale tra il 3 e il 5 per cento in tutto il mondo. Tra il 1998 e il 2010 l’incidenza del diabete di tipo 1 ha avuto un’impennata sconvolgente, pari al 40 per cento.
Un aumento tanto vertiginoso in un tempo così breve ci ha indotto a pensare che il fenomeno non fosse dovuto a un cambiamento sostanziale del pool genico umano: il DNA non muta così in fretta. Una varietà di combinazioni differenti di molti geni aumenta drasticamente il rischio che un individuo si ammali di diabete di tipo 1. Secondo i ricercatori però la prevalenza di questi profili genetici ad alto rischio è rimasta invariata. Anzi, oggi si ammalano sempre più persone con una predisposizione genetica relativamente bassa al diabete di tipo 1. Pochi casi sono riconducibili solo a un disturbo di natura genetica. Questi e altri dati, raccolti in tutto il mondo, inducono a pensare che esistano fattori ambientali emersi di recente.
Negli anni sono state considerate diverse possibilità, via via accantonate. A differenza del diabete di tipo 2, quello di tipo 1 non dipende dalla dieta. Diversi studi hanno mostrato che il diabete di tipo 1 si manifesta con maggiore frequenza via via che ci si allontana dall’equatore. E possibile che questa variazione regionale derivi da una carenza di vitamina D, prodotta facilmente dallorganismo quando è esposto al Sole? Questa ipotesi è stata scartata. Gli epidemiologi hanno scoperto che in alcuni paesi dell’estremo Nord, come la Finlandia, il tasso di diabete di tipo 1 era più alto nelle regioni che godevano di una migliore esposizione solare.
La maggior parte dei dati raccolti punta invece a una causa virale: forse uno o più virus presenti nelle acque di scarico o in acque potabili contaminate. Secondo numerosi studi, i responsabili sarebbero gli enterovirus, così chiamati perché normalmente si trovano nell’intestino [énteron in greco antico). In effetti, non ci sono dati significativi che colleghino la malattia ad altri fattori di influenza virali o ambientali. Alcuni enterovirus possono replicarsi nel pancreas, infiammando le aree adiacenti a dove si trovano le cellule delle isole di Langerhans, che producono l’insulina. Le regioni colpite producono cellule T autoimmuni, che in alcune circostanze proteggono l’organismo dagli invasori. Le cellule T autoimmuni, però, attaccano le isole stesse, annientandone la capacità di produrre insulina e scatenando il diabete.
I ricercatori hanno contato oltre 100 tipi di enterovirus. Non sembra però che l’esplosione del diabete a livello mondiale sia imputabile a un unico enterovirus. Gli scienziati hanno invece individuato una serie di possibili candidati, primi tra tutti sei enterovirus chiamati Coxsackie B, coinvolti nella continua crescita della malattia. Non si è ancora capito precisamente come queste infezioni riescano a indurre l’organismo ad auto-aggredirsi. Il processo deve essere complesso: studi epidemiologici indicano che alcuni enterovirus specifici aggravano la malattia in alcuni pazienti, mentre in altri apparentemente ne impediscono l’insorgenza.
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