Controcopertina

Alici contaminate da istamina: via dagli scaffali di tutta Italia



Arriva il richiamo del ministero della Salute che vale per tutta Italia dopo essere stata ritirata dagli ipermercati Auchan di Bussolengo, Porta di Roma, Nola, Pompei e Palermo Fondo Raffo. Si tratta della colatura di alici Sapori di Mare prodotta dalla Iasa di Pellezzano (Salerno) per presenza di istamina oltre la soglia di legge. I lotti interessati non riguardano più solo lo 08/2017 con scadenza al 31 agosto 2019, come disposto inizialmente dalla catena francese della grande distribuzione, ma tutti quelli che vanno dallo 01/2017 al 12/2017 e ancora in commercio. La confezione è quella nelle anfore di vetro da 100 millilitri.



Dove chiedere maggiori informazioni

I consumatori, scrive Auchan sul suo sito e ribadisce il ministero, devono riportare il prodotto al punto vendita per la sostituzione mentre ulteriori informazioni possono essere ottenute chiamando il numero 089.56.63.47 oppure scrivendo all’indirizzo iasasrl@tin.it.

La formazione di istamina e delle altre ammine biogene nei tessuti del pesce L’istidina è convertita in istamina come risultato dell’attività di batteri che producono l’enzima istidina decarbossilasi durante la loro crescita, in presenza di condizioni di conservazione inadeguate per il controllo della crescita batterica. Questi batteri sono comunemente presenti nell’ambiente marino e si trovano naturalmente sulle branchie e nell’intestino dei pesci, senza causare loro malattia o danno. L’istamina non è quindi presente nel pesce vivo, ma è prodotta dopo la sua morte, quando i meccanismi di difesa non inibiscono più la crescita batterica. La formazione di istamina può essere prevenuta raffreddando immediatamente il pescato dopo la cattura, oppure riducendo il carico batterico con operazioni di preparazione quali l’eviscerazione e l’asportazione delle branchie, che, tuttavia, se fatte in condizioni igieniche carenti possono accelerare lo sviluppo di istamina nelle parti muscolari per diffusione dei batteri alle carni. La formazione di istamina in quantità tossiche, per quanto rappresenti una forma di deterioramento del pesce, precede la perdita delle caratteristiche sensoriali di freschezza (aspetto, odore, sapore); pesci con accettabili condizioni sensoriali possono contenere elevati livelli di istamina e, al contrario, la presenza di odori della decomposizione non sono utili indicatori della presenza di istamina. Tuttavia il pesce è un alimento rapidamente deperibile e con il proseguire dei giorni, anche alla temperatura di refrigerazione, il deterioramento avanza con possibile produzione di istamina. Essendo l’istamina termostabile, né la cottura né la sterilizzazione decontaminano un pesce con elevati livelli di istamina.

Effetto paradosso Non essendo possibile riprodurre l’intossicazione mediante somministrazione orale di istamina pura in quantità superiori alle quantità anche piccole che, se presenti nel pesce, causano intossicazione, si è ipotizzata la presenza di potenziatori. È stato dimostrato sperimentalmente che l’assorbimento, il metabolismo e/o l’efficacia di una ammina biogena possono essere modificati da un’altra ammina. Altre ammine biogene ed altri composti chimici presenti nei tessuti del pesce possono abbassare la soglia di istamina necessaria a dare intossicazione o impedire la naturale detossificazione; i potenziatori inibirebbero gli enzimi presenti nel tratto intestinale che metabolizzano l’istamina (diamino ossidasi, DAO, o istaminasi, attiva anche su putrescina, e istamina metil transferasi, HMT, molto selettiva nei confronti di istamina) o svolgerebbero anche un ruolo secondario interferendo con la possibile azione protettiva della mucina intestinale che previene l’assorbimento di istamina, ipotesi che tuttavia non sembra convincente.

Una spiegazione molto probabile dell’intossicazione da istamina è quella che coinvolge l’isomero cis dell’acido urocanico, derivato dell’istidina per azione dell’enzima istidasi (istidina ammoniacaliasi), che stimola la degranulazione dei mastociti aumentando la liberazione di istamina endogena, la quale si sommerebbe all’istamina esogena consumata con il pesce alterato. Tra i potenziatori presenti nei tessuti del pesce sono elencati altre ammine biogene (putrescina, cadaverina, tiramina, agmatina) e altri composti quali spermina, spermidina, anserina, trimetilammina e trimetilamminoossido. Oltre a potenziatori interni, presenti nei tessuti del pesce, altre sostanze esogene e condizioni patologiche dell’individuo possono potenziare l’azione dell’istamina presente nel pesce, tra queste alcuni farmaci bloccanti della DAO, elevati livelli di alcool consumati durante il pasto di pesce, cirrosi epatica, sanguinamento del primo tratto dell’intestino, fermentazione batterica intestinale. È descritta anche un’intolleranza all’istamina, condizione che rappresenta un’alta sensibilità all’istamina presente nei cibi e che può spiegare le variazioni individuali di sensibilità verso l’istamina contenuta nel pesce. La causa principale dell’intolleranza all’istamina è una bassa attività ammino ossidasica per cause genetiche o acquisite. A seguito della somministrazione orale di 75 mg di istamina ad un gruppo di 10 donne sane, senza una storia pregressa di intolleranza all’istamina, in 5 si sono verifi cati sintomi istaminomediati, evidenziando come in un pasto sia possibile superare la soglia di istamina che causa reazione avversa in individui sensibili. La sensibilità di genere sembra anche legata all’infl uenza degli estrogeni sull’azione dell’istamina.

Concentrazioni di istamina nel pesce e dose tossica La concentrazione di istamina nel pesce considerata sicura è inferiore a 50 p.p.m. (parti per milione o mg/kg); concentrazioni da 50 a 200 p.p.m. sono considerate possibile causa di intossicazione in individui sensibili, concentrazioni nel pesce da 200 a 1000 p.p.m. sono probabilmente tossiche e concentrazioni superiori a 1000 p.p.m. sono considerate tossiche. In quantità assolute si è calcolato, sulla base di episodi di sindrome sgombroide corredati delle analisi sull’alimento sospetto, che in genere l’assunzione di quantità di istamina da 8 a 40 mg causa lieve avvelenamento, quantità da 20 a 1000 mg causano disturbi di entità moderata, mentre quantità da 1500 a 4000 mg e oltre causano disturbi gravi. Tuttavia è diffi cile stabilire una soglia di concentrazione tossica perché la presenza di potenziatori può ridurre la dose tossica, i pesci possono contenere potenziatori diversi e in diversa quantità, ed è provata un’ampia variabilità nella sensibilità individuale all’istamina.

Da quanto esposto sopra, considerando i valori ammessi nella Unione Europea per i pesci delle famiglie a rischio di istamina, di un valore medio del lotto non superiore a 100 p.p.m. con un massimo ammissibile di 200 p.p.m., ne consegue che concentrazioni di istamina nel pesce entro i limiti posti dalla UE possano provocare sintomi di intossicazione in soggetti sensibili. Ad esempio, il consumo di una porzione di pesce da 200 g avente una concentrazione di istamina di 100 p.p.m. apporta 20 mg di istamina, quantità già compatibile con un lieve avvelenamento; in caso di pesce con concentrazioni vicine al limite massimo di 200 p.p.m. basterebbe una porzione di poco più di 100 g per causare una lieve intossicazione. La dose per la manifestazione clinica della sindrome sgombroide è influenzata da numerosi fattori quali: sensibilità individuale, genere, peso corporeo, composizione del pasto (alcool, verdure e formaggi), farmaci (antidolorifi ci, anti-ipertensivi, mucolitici, antibiotici, agenti che riducono la motilità intestinale), patologie (orticaria cronica, eczema atopico, problemi cardiaci o coronarici, ipertensione, carenza di vitamina B6 e le malattie gastrointestinali, che riducono l’attività delle ossidasi), età e presenza dell’intolleranza all’istamina. Infi ne, la sensibilità all’istamina è aumentata dal fumo di tabacco che riduce i livelli di MAO (monoammino ossidasi) fino a inibirne l’attività.

Misure di prevenzione della sindrome sgombroide e di controllo nel pesce fresco Il raffreddamento rapido del pesce immediatamente dopo la morte è l’elemento strategico per prevenire la formazione di sgombrotossina, specialmente nel caso di pesce pescato in acque temperate o calde, in climi caldi e nel caso dei tonni di grandi dimensioni nei cui tessuti a seguito della morte si genera calore. Le linee guida FDA (2011) raccomandano che:

• il pesce esposto all’aria o a temperature dell’acqua superiori a 28,3°C deve essere messo in ghiaccio o acqua di mare refrigerata, miscele ghiaccio-acqua, o salamoia a 4,4°C o meno, il più presto possibile dopo la pesca e comunque entro 6 ore dalla morte; oppure • il pesce esposto all’aria o a temperature dell’acqua ≤ 28,3°C deve essere messo in ghiaccio o acqua di mare refrigerata, miscele ghiaccio-acqua, o salamoia a 4,4°C o meno, il più presto possibile dopo la pesca e comunque entro 9 ore dalla morte; oppure • il pesce sbranchiato ed eviscerato prima del raffreddamento deve essere messo in ghiaccio o acqua di mare refrigerata, miscele ghiaccio-acqua, o salamoia a 4,4°C o meno, il più presto possibile dopo la pesca e comunque entro 12 ore dalla morte; oppure • il pesce che è pescato in condizioni che espongono il pesce morto ad acque con temperature ≤ 18,3°C per 24 ore o meno deve essere messo in ghiaccio o acqua di mare refrigerata, miscele ghiaccioacqua, o salamoia a 4,4°C o meno, il più presto possibile dopo la pesca e comunque non oltre i limiti di tempo detti sopra, con il periodo di tempo che inizia quando il pesce lascia l’ambiente a ≤ 18,3°C. Queste regole per il raffreddamento a bordo prevengono la formazione rapida dell’enzima istidin-decarbossilasi, poiché una volta che si è formato l’enzima è improbabile che si riesca a controllare il pericolo istamina. Le linee guida sottolineano che è opportuno raffreddare vicino al punto di congelamento per evitare la produzione di istamina durante il mantenimento al freddo, aumentando nel contempo la vita commerciale del pesce; considerano inoltre rischioso e da scoraggiare l’uso di natanti non attrezzati per il raffreddamento a bordo, anche se è possibile restare nei limiti dei tempi e delle temperature raccomandati. Nel caso dei pesci di maggiori dimensioni eviscerati si deve curare che la cavità addominale sia ben riempita di ghiaccio. Il tempo richiesto per abbassare la temperatura interna del pesce dopo la cattura dipende da numerosi fattori: • il metodo di pesca: il ritardo nella rimozione dei pesci dalle long line (palangari) può causare l’innalzamento termico in alcuni pesci , le quantità di pescato catturate con i metodi purse seine (reti a circuizione) e long line possono superare la quantità che può essere raffreddata con successo dal natante; • peso del pesce: ad esempio i capitolati di alcuni trasformatori prevedono un peso massimo dei pesci; • metodo di raffreddamento: è più efficace l’uso di miscele acquaghiaccio o acqua refrigerata ricircolante che non il ghiaccio, ma ogni sistema di raffreddamento deve essere adeguato alla quantità di pescato.

Queste indicazioni sono riprese da altre autorità in tutto il mondo e da associazioni di categoria dei pescatori. Dopo il raffreddamento il pesce deve essere mantenuto rigorosamente ad una temperatura vicina al suo punto di congelamento o meglio congelato fino al consumo. Il congelamento per almeno 24 settimane riduce il numero dei batteri produttori di istamina, la cottura, oltre ad inattivare i batteri, inattiva anche l’enzima. Nelle fasi successive alla pesca deve quindi seguire una catena del freddo ottimale, fi no alla cucina, sia professionale che domestica, poiché la produzione di istamina può essere causata a questo livello dall’esposizione del pesce ad alte temperature che facilitano la moltiplicazione batterica e la produzione dell’istidin-decarbossilasi da parte dei batteri. Il tonno (e gli altri pesci a rischio di istamina) ha una vita commerciale sicura (cioè i giorni prima che si formino livelli elevati di istamina) che dipende dal metodo di cattura, dal trattamento a bordo e dall’esposizione (tempo/temperatura) durante l’intero periodo di trattamento, trasporto, conservazione; a temperatura di 4,4°C la durata non supera i 5-7 giorni. La maggior parte dei batteri produttori di istamina sono contaminanti post-cattura e abusi termici, anche brevi, possono portare alla formazione di istamina specialmente nel tonno, particolarmente ricco del precursore allo stato libero. Né si deve dimenticare l’aggiunta di ingredienti crudi o le scarse pratiche igieniche che potrebbero reintrodurre contaminanti. Anche lo scongelamento del pesce, se pure congelato e conservato in maniera ottimale, è considerato una fase a rischio, se condotto alla temperatura ambiente delle cucine, generalmente abbastanza alta. Nel 2007, ASL Città di Milano – Servizio di igiene della produzione, commercializzazione, trasporto degli alimenti di origine animale – Servizio di igiene degli alimenti e della nutrizione, ha pubblicato un sintetico “Opuscolo rivolto a chi opera nella gastronomia e nella ristorazione e produce, vende, e/o somministra pasti o piatti pronti” identifi cando chiaramente i punti critici per la prevenzione della sindrome sgombroide. Tra le avvertenze si sottolinea che il prodotto fresco sottovuoto, una volta aperta la confezione, non ha più la durata prevista in etichetta e che il prodotto scongelato deve essere mantenuto in frigorifero ad una temperatura vicina allo 0°C a cuore del prodotto.

Istamina: laminiti e non solo

I motivi per cui le vacche da latte lasciano i nostri allevamenti sono per lo più sanitari. Il tempo in cui la prima causa di rimonta era la produttività sembra ormai lontano. In Italia il tasso di sostituzione della Frisona supera abbondantemente il 30% e, anche se non ci sono dati elaborabili, le principali cause di ciò sono l’infertilità, le mastiti e le zoppie. Con quale percentuale si contendono il totale delle eliminazioni ad oggi non ci è dato saperlo. In ogni caso la riforma per zoppie occupa una parte non trascurabile ed i costi diretti ed indiretti sopportati dagli allevatori per la loro gestione non sono irrilevanti. Le più frequenti zoppie della vacca da latte si suddividono in due grandi raggruppamenti: le laminiti e le dermatiti. Le prime sono infiammazioni delle lamine ossia del tessuto cheratogeno che si trova tra la terza falange e l’unghiello e le seconde, invece, sono infiammazioni della pelle del dito. Le condizioni d’allevamento, le razze allevate e l’omogeneità genetica, unitamente alla riduzione della durata della vita produttiva, hanno ridotto il numero delle patologie che possono colpire le vacche da latte unitamente ai fattori sia causali che predisponenti.
Questa riduzione delle malattie e delle loro possibili cause non ha certo agevolato il lavoro dei veterinari e degli zootecnici perché per molte di queste ridurne l’incidenza e il decorso è molto difficile, per loro intimo legame con le necessità della produzione. Esempio importante di questo è appunto la lami- nite che altro non è che una pododer- matite asettica diffusa che si manifesta, principalmente con zoppie, ulcere della suola, distacchi della linea bianca, decolorazioni della suola e alterazioni della forma normale degli unghielli.

Questa malattia del dito bovino è causata
dall’accumulo di molecole per lo più di produzione endogena come le endotos- sine e l’istamina che determinano un’alterazione emodinamica della microcircolazione del tessuto cheratogeno del dito. Delle endotossine ne abbiamo diffusamente parlato su questa rubrica. Esse sono lipopolisaccaridi che derivano dalla morte e dalla conseguente distruzione dei batteri gram-negativi. Gli organi di produzione maggiormente coinvolti sono il rumine, nel corso delle acidosi, l’utero, in seguito alle metriti e la mammella, come conseguenza delle mastiti cliniche.

Le mastiti e le metriti, per essere fonte di endotossine, devono avere un decorso acuto e causate da batteri gram- negativi.
Il rilascio di endotossine dal rumine può avvenire invece in forma continuativa come conseguenza dell’acidosi ruminale sub-clinica a decorso cronico. Il rumine delle vacche da latte allevate in condizioni d’allevamento standard, ossia con alimentazioni basate sulla somministrazione di foraggi integrati con concentrati, difficilmente conosce l’alcalo- si ruminale.

La condizione di alcalosi è causata da una eccessiva somministrazione di proteina rumino-degradabile e non dalla liberazione di endotossine, perché i batteri ruminali gram-negativi sono in genere i cellulosolitici che vedono nel pH superiore a 6.00 l’habi- tat ideale.
A determinare la liberazione di endo- tossine dal rumine è invece la caduta del pH ruminale conseguente all’uso di grandi quantità di carboidrati fermen- tescibili come gli amidi. A pH inferiori a 5.60, stabili o ricorrenti, i batteri cellulosolitici non riescono sopravvivere pienamente per cui la liberazione di endotossine può anche essere imponente. Nelle diete riservate alle bovine ci cerca la massima produzione di acido propionico e questo è ottenibile sostituendo carboidrati strutturali come le fibre con quelli non strutturali come gli amidi.

Quando il pH ruminale, in virtù di una eccessiva produzione di acidi grassi volatili che può mettere in difficoltà sia la capacità tampone del rumine che i meccanismi d’assorbimento ruminale, scende sotto la soglia del 5.60 possono iniziare a crescere i batteri lattici come lo Streptococcus bovis che attraverso la produzione di acido lattico fa scendere ulteriormente il pH ruminale. In queste condizioni viene prodotta dal rumine l’istamina. Questa sostanza appartiene al gruppo delle amine biogene. Deriva dalla decarbossilazione dell’a- minoacido istidina, largamente presente negli alimenti zootecnici. L’istidina si trova ad una concentrazione che varia dal 4 all’8 %, degli aminoacidi essenziali, con una presenza particolarmente elevata nella farina di sangue (11.3%).

Effetti dell’istamina
L’istamina ha un effetto vasocostrittore delle grandi arterie agendo sulla muscolatura liscia e vasodilatatore sulle arteriole. Per quest’ultimo motivo aumenta la permeabilità dei capillari attraverso modificazioni delle cellule endoteliali.
Essendo l’istamina una molecola “infiammatoria” questi effetti hanno la funzione di aumentare il flusso di liquidi e leucociti nei luoghi dell’infezione. Esempio classico da citare è la produzione locale d’istamina, ad opera dei granulociti basofili e i mastociti , in seguito alla puntura di un insetto allo scopo di diluire l’effetto negativo del veleno introdotto da esso nel punto di aggressione. L’istamina esercita la sua azione tramite recettori sparsi su molti organi e tessuti. Li ritroviamo nell’intestino, sui bronchi, sull’apparato cardiovascolare, nel sistema nervoso centrale e su quello immunitario. Nella medicina umana l’istamina è coinvolta nella secrezione gastrica e pancreatica, nell’impianto della blastociste, come mediatore dell’azione degli estrogeni, nelle allergie, nella tossiemia gravidica e nell’ulcera peptica. Poco si conosce sugli effetti che ha l’istamina sulla bovina da latte.
Quello che è noto è quello che fa questa amina sul delicato tessuto cherato- geno del piede bovino. L’aumento della permeabilità vasale e la vasodilatazione provocano danni meccanici a queste cellule per compressione e per la mancanza di ossigeno e nutrienti derivanti dalla stasi della circolazione e che sono il fattore eziologico del dolore e delle lesioni dell’unghiello. L’azione prolungata dell’istamina sulle cellule cheratogene può provocare danni meccanici anche irreversibili.
Inizialmente si pensava che l’istamina fosse prodotta dai batteri lattici vista la concomitanza della produzione dell’acido lattico quando il pH ruminale scende verso e sotto 5.00. Rodwell nel 1953 isolò batteri che producono istamina da ruminanti alimentati con diete ricche di concentrati definendoli come lattobacilli.
Nel 2002 Garner isolò dal rumine una nuova specie batterica appartenete alla famiglia delle Acidaminococcaceae della classe dei Clostridia a cui diede il nome di Allisonella histaminiformans in onore al grande microbiologo del rumine Milton J. Allison. Questo batterio resiste all’acidità come molti lattobacilli e per crescere ha la necessità dell’istidina come unica fonte energetica, aminoacido dalla cui decarbossilazione, viene prodotta l’istamina. Il suo tasso di crescita è proporzionale alla presenza di questo aminoacido. Un altro importante fattore di crescita per questo batterio è la presenza d’insilati soprattutto di medica ma anche di mais. L’A. histaminiformans non è stata ancora mai isolata dal rumine di bovine alimentate con
solo fieno per cui si pensa che richieda azoto peptidico derivante dagli insilati. Durante l’acidosi ruminale batteri come il Fusiformis necrophorus possono passare attraverso le cellule dell’epitelio ruminale danneggiato e arrivare, attraverso la vena porta, al fegato dove possono causare ascessi epatici. Il danneggiamento dell’epitelio ruminale e la ruminite derivante può anch’essa causare la produzione e il passaggio in circolo d’istamina.
A riprova del ruolo dell’istamina nella genesi della laminite c’è l’efficacia degli antistaminici somministrati all’inizio della malattia.
Le amine biogene come l’istamina possono anche essere ingerite con alimenti (insilati) mal conservati, magari nei quali sono avvenute fermentazioni clo- stridiche, ma ciò è un evento solo sospettato e non ancora sufficientemente dimostrato. Oltre al rumine una potenziale fonte di endotossine ma soprattutto d’istamina è il grosso intestino.
L’acidosi intestinale, patologia piuttosto nota nella medicina del cavallo, può essere causata da un grande afflusso di amido nel colon. Questa condizione si può verificare anche nelle bovine da latte alimentate con grandi quantità di amido a bassa degradazione ruminale come quello del mais crudo e non fermentato.
L’acidosi intestinale, patologia spesso sottovalutata nella bovina, può comportare la produzione di amine biogene con le stesso meccanismo descritto nel rumine anche se la presenza di Allisonella histaminiformans non stata ancora dimostrata. Un’altra classe di molecole sospettata nella genesi della laminite sono i fruttani e i frutto-oli- gosaccaridi che con il glucosio e gli amidi rappresentano il gruppo dei carboidrati più fermentescibili presenti nelle diete per vacche da latte.
Questi carboidrati non sono degradabi- li dagli enzimi digestivi ma possono essere fermentati in acido acetico e acido lattico. Li troviamo molto abbondanti nelle graminacee specialmente quando si riduce la lor crescita ma continua la fotosintesi: condizione tipica dei
Professione Allevatore |105| Ottobre 2011
periodi siccitosi. E facile trovare un livello del 14-20% di fruttani nelle graminacee fresche. Anche l’alta intensità della luce e le basse temperature possono favorire la presenza di questi carboidrati.

Conclusioni
La laminite della vacca da latte è una grave patologia invalidante, per questo causa di riforma, ma che nel suo decorso sub-clinico può interferire negativamente con la fertilità e la produzione di latte, favorendo nel contempo l’insorgenza del complesso chetosi/lipidosi. Essendo una tipica malattia della produzione è difficile mettere completamente in atto tutte quelle misure necessarie alla rimozione dei principali fattori predisponenti come la pavimentazione e il movimento o causali e quindi legati all’alimentazione. Un adeguata produzione di latte e fertilità richiedono notevoli apporti energetici realizzabili solo, almeno allo stato attuale delle conoscenze, apportando carboidrati non strutturali come gli amidi e gli zuccheri in sostituzione delle fibre.
L’abilità dei professionisti che supporta l’allevatore è quella di modulare il pH ruminale per una sua massima efficienza senza “scovolare” nell’acidosi ruminale. Vista l’estrema standardizzazione delle tecniche d’allevamento e delle razze allevate potrebbe essere estremamente fuorviante ricercare la causa delle laminiti verso cause diverse ma oggi di scarsa rilevanza. I così detti “eccessi proteici” potevano essere tra le cause passate di laminiti quando l’apporto di cereali era modesto e le bovine, specie in primavera, pascolavano su lussureggianti pascoli ricchi di azoto, spesso non proteico.



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