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‘Dopo quello che ho passato durante il parto, preferisco la sterilizzazione a un altro figlio’: la storia di Anna



Il toccante racconto di Anna mette in luce le difficoltà affrontate durante un parto complicato e le ripercussioni fisiche ed emotive che ne sono derivate.



La storia di Anna delle Foglie, che nel 2023 ha dato alla luce il suo primo figlio in un ospedale della Romagna, rappresenta un potente esempio delle sfide e delle difficoltà che possono verificarsi durante il parto. Quella che doveva essere una gioiosa esperienza si è trasformata in un percorso segnato da dolore, mancanza di supporto e una gestione medica che ha lasciato cicatrici non solo fisiche, ma anche emotive. Anna ha condiviso la sua esperienza per sensibilizzare su temi come la violenza ostetrica e l’importanza di un’assistenza umana e rispettosa.

Un inizio complesso: decisioni difficili e il monitoraggio prenatale

La storia di Anna inizia con la scelta di cambiare ospedale poco prima del parto. Alla 40ª settimana di gravidanza, si era recata nella struttura dove il suo ginecologo era primario, ma l’esperienza di monitoraggio l’aveva delusa profondamente:
“Abbiamo aspettato sei ore, senza poter mangiare e sedute su sedie scomode, l’arrivo di un medico che firmasse i tracciati”, racconta.

L’assenza di una terapia intensiva neonatale nella struttura e il limite imposto ai padri di trascorrere solo 40 minuti al giorno con madre e neonato hanno spinto Anna a trasferirsi in un ospedale più distante. Qui, alla data presunta del parto, il 16 gennaio, è stata ricoverata per l’induzione.

L’induzione del parto: dolore fisico ed emotivo

L’induzione del parto è iniziata con l’inserimento di un palloncino intrauterino, un metodo che Anna ricorda come estremamente doloroso. Il collo dell’utero non era minimamente dilatato, e la procedura si è rivelata invasiva e prolungata: “Avrebbero dovuto rimuoverlo dopo 8 ore, ma senza spiegazioni lo hanno lasciato per 24 ore”.

Successivamente, le sono state somministrate più dosi di misoprostolo, un farmaco per indurre le contrazioni. Anna ricorda con angoscia le lunghe ore trascorse in sala parto, da sola, ascoltando le urla delle altre donne che partorivano:
“Ogni dose richiedeva un monitoraggio, e tra una dose e l’altra dovevo riposare, ma non era possibile. Con me in stanza c’era una donna con il suo neonato, che piangeva continuamente”.

Un travaglio complicato e il tentativo di parto naturale

Quando finalmente le contrazioni sono iniziate, Anna si è trovata a dover affrontare dolori intensi e crescenti. Nonostante le sue richieste, le è stata negata una sedia a rotelle per raggiungere la sala parto, costringendola a percorrere il corridoio aggrappata a una ringhiera. Arrivata in sala parto, l’ambiente sembrava accogliente, ma il calvario era solo all’inizio.

Le prime spinte sono state accompagnate da un dolore insopportabile, aggravato dalla mancata efficacia dell’epidurale, e dalla fretta dei medici di concludere il travaglio:
“Non mi hanno permesso una seconda dose di epidurale, dicendo che avrebbe rallentato tutto. Solo dopo ho scoperto che il bambino era in sofferenza”.

Anna descrive il momento più difficile: “I medici mi facevano cambiare continuamente posizione e mi infilavano le mani senza spiegazioni. Ogni volta provavo un dolore insopportabile, ma nessuno mi diceva cosa stesse succedendo”.

Il parto cesareo d’urgenza

Dopo due ore di spinte infruttuose, i medici hanno deciso di intervenire con un cesareo d’urgenza, ma senza avvisare Anna, che era ormai esausta e febbricitante. Al risveglio, non ha trovato suo figlio accanto a sé. Solo dopo molte ore, le è stato comunicato che il bambino era in terapia intensiva neonatale, rianimato al momento della nascita per un arresto cardiaco.
Il referto medico, richiesto da Anna in seguito, ha rivelato una grave distocia meccanica, che aveva messo a rischio la vita del neonato per ore.

Le difficoltà post-parto: pressione sull’allattamento e mancanza di supporto

Nei giorni successivi al parto, Anna ha affrontato ulteriori pressioni. In terapia intensiva neonatale, un infermiere le ha imposto di iniziare l’allattamento, nonostante il suo stato fisico ed emotivo.
“Non ero pronta, ma mi sentivo in colpa per non riuscire a dare conforto a mio figlio”, racconta.

L’assenza di un nido ospedaliero e il sistema di rooming-in hanno peggiorato la situazione, costringendo Anna e le altre madri a gestire i neonati senza riposo o supporto adeguato.

Il trauma e le conseguenze emotive

Dopo essere uscita dall’ospedale, Anna ha vissuto mesi di disturbo post-traumatico. Ha affrontato incubi e pensieri intrusivi, oltre a un iniziale rifiuto verso il suo bambino, superato solo grazie a una lunga terapia:
“Ci ho messo mesi per costruire un legame sano con mio figlio. Ma la ferita emotiva resta”.

Oggi, Anna non riesce a immaginare di affrontare un’altra gravidanza. Le esperienze vissute l’hanno segnata profondamente, portandola a una scelta estrema:
“Non rientrerei mai più in sala parto, neanche per un cesareo programmato. Preferirei essere sterilizzata”.

La storia di Anna mette in evidenza la necessità di un’assistenza ostetrica più rispettosa e attenta alle esigenze fisiche ed emotive delle donne. La sua testimonianza è un invito a riflettere sull’importanza di fornire un supporto adeguato durante il parto, affinché nessuna madre debba affrontare un’esperienza simile.



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